Il Gaber arrabbiato ma fatto tacere: “Io se fossi Dio”

GiorgioGaber

Mario Bonanno
Io se fossi Dio-L’apocalisse secondo Gaber
Casa editrice Stampa alternativa-Nuovi equilibri

Io se fossi Dio è un disco fantasma, pubblicato all’alba degli Ottanta e mai più ristampato nella sua forma originale. Non è un caso: Io se fossi Dio è il disco più enfio, scomodo, irriverente, coraggioso, virulento, sincero, che Giorgio Gaber abbia mai prodotto. Il disco di cui nessuno ha mai parlato -e parla- volentieri. Perché negli anni bubble gum della Milano da bere, del craxismo imperante, dell’Italia che andava a puttane, fuori e dentro metafora, Io se fossi Dio è stato l’lp (ancorchè anomalo, mini 33?, maxi 45?) che nessuno voleva. Non lo voleva la casa discografica che ha finito, difatti, col tirarsi indietro. Non lo volevano i giornalisti di Palazzo, e nemmeno i partiti politici, mossi dallo sdegno per la lesa maestà del martire Aldo Moro. Meno che mai lo volevano stampa e televisioni, già genuflesse al benpensantismo di facciata e all’euforia di dovere. A trent’anni (e passa) dall’uscita della canzone e a dieci dalla morte di Gaber, questo libro rompe il silenzio, commentandola strofa per strofa, intersecandone la storia ufficiale e i retroscena. Con il supporto di diverse fonti dell’epoca e le interviste inedite a Sergio Farina e Sandro Luporini.
Mario Bonanno (Catania, 1964) scrive articoli e libri sui cantautori italiani. Per Stampa Alternativa ha pubblicato Che mi dici di Stefano Rosso? Fenomenologia di un cantautore rimosso e Rosso è il colore dell’amore. Intorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli.


INTERVISTA A MARIO BONANNO, GIOVEDI’ 1 AGOSTO 2013 (a cura di Luca Balduzzi)

In che periodo della storia del nostro paese e della carriera di Giorgio Gaber arriva il disco Io se fossi Dio?
Io se fossi Dio viene editata, come parto spurio della discografia gaber-luporiniana (è una ballata anomala, violenta, interminabile, che nessuno voleva) all’alba degli Ottanta, quando l’inizio della fine è appena cominciato. Quando estenuati dall’impegno politico dei Settanta, infiacchiti dai pensieri di Mao e Marcuse, si transita in gruppo alle amenità di stampo Drive in, e il dilemma sociale della tribù che balla diventa: meglio Spandau o Duran? Si è appena inaugurata, insomma, l’era delle tv commerciali, del rampantismo, della moda-glamour, dell’individualismo sfrenato, del divertimento idiota e fine a se stesso. Io se fossi Dio costituisce l’esatto contraltare a tutto questo. E’ il piano ravvicinato su ciò che, all’epoca, nessuno vuole, osa o riesce a vedere: una Nazione in tiro ma soltanto per facciata, nella sostanza idiota, farisaica, incattivita. E una società civile ancora più schifosa di quella stessa Nazione, altro che i vaneggiamenti apologetici sull’Italia e gli italiani alla Cutugno o alla Balsamo-Reitano. Il riferimento all’apocalisse nel sottotitolo del mio libro non è lì per caso: Io se fossi Dio è un rigurgito impazzito di teatro-canzone, l’acme dell’anamnesi gaberiana sul collasso dell’individuo e della civiltà. Una ballata nera, fuori orario e fuori dal coro: la canzone più anomala, impavida, cattiva, lunga, scomoda, violenta, sincera, lucida, ulcerosa, riuscita, che la storia musicale ricordi (ammesso che ricordi ancora qualcosa).

Gaber è stato un cantautore che non ha mai avuto paura di esprimere il suo parere su qualsiasi argomento che ritenesse degno di attenzione, ma non si è mai spinto a farlo con tanta violenza verbale come in questa canzone… come è arrivato a scegliere questo stile per questo disco?
Infatti: Gaber e Luporini non erano nuovi alle verità brutto-muso. Col loro teatro-canzone sono stati, sin dall’inizio, tra i più caustici fustigatori di politica e costumi (vedi i tic della sinistra extraparlamentare messi alla berlina in Polli di allevamento), ma mai prima di Io se fossi Dio si erano spinti tanto oltre e in modo tanto diretto. Ecco, volendo rintracciare una differenza con gli spettacoli e i dischi precedenti, quello che viene a mancare per la prima volta in Io se fossi Dio è il sorriso, il ricorso rassicurante all’autoironia che -dai monologhi de Il Signor G. fino a Quando è moda è moda– in qualche modo, rimetteva a posto le cose e ti faceva tirare il fiato, pensare che in fondo si era solo scherzato. Credo che lo stile di Io se fossi Dio, come succede nei pamphlet più diretti (compresi quelli musicali) scaturisca, in primo luogo, da un atto di esigenza. Da uno sdegno, un disgusto, anche da un’impotenza: tutto ciò ha fatto sì che Gaber e Luporini si siano espressi come si sono espressi, in modo così poco edulcorato. A un certo punto tutti -dai collaboratori ai discografici- cercarono di dissuaderli da intenti scopertamente antagonisti: l’ostinazione con la quale, soprattutto Gaber, ha difeso la forma di questa canzone rimanda a una necessità che, prima ancora che comunicativa, si pone come sfogo e grido di dolore personale.

Un messaggio viene spesso male interpretato, e così è stato per il passaggio della canzone relativo al terrorismo. Rimane però evidente la critica ad Aldo Moro…
A mio avviso il commento che Gaber e Luporini danno sulle Brigate Rosse non lascia spazio a equivoci, tranne che a quelli pretestuosi, tirati in ballo da analfabeti di ritorno o dai soliti reazionari in assoluta malafede. E’ vero o no, infatti, che, tra le strofe rivolte al terrorismo compaiono termini e giudizi di valore quali “innominabili”, “sgomento”, “pazzia”? E anche la presa di posizione su Aldo Moro, pur non lesinando critiche di natura politica («Aldo Moro resta ancora quella faccia che era»), credo sia indirizzata, piuttosto, contro una certa ipocrisia (anche mediatica) secondo la quale «un politico qualunque / se gli ha sparato un brigatista / diventa l’unico statista». Contro il fariseismo viscido dei giornali «col gusto della lacrima in primo piano», utile solo a sollecitare «lo stupido pietismo per il carabiniere». All’epoca in cui Gaber e Luporini scrivono Io se fossi Dio, Brigate Rosse e Aldo Moro rappresentano, insomma, due espressioni -estreme e inconciliabili- dello stato delle cose, nell’Italia che va soltanto in apparenza: da un lato gli sberluccichii della Milano da bere, dall’altro ancora il piombo, il malessere, gli scandali, la guerra civile, i morti ammazzati del terrorismo. Questa era, di fatto, la Nazione di allora, questo era il Paese dei primi anni Ottanta.
Poi ciascuno nelle canzoni ci vede ciò che vuole, quello che gli fa comodo. Per buttarla un po’ in psicoanalisi: la canzone è il medium proiettivo per eccellenza. Nel senso che chi ne usufruisce può leggerci dentro ciò che gli pare, apologia del terrorismo e oltraggio alla memoria di Aldo Moro compresi. Prima di Gaber era toccato a Claudio Lolli passare per fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Il fatto vero è che bisogna essere attrezzati -soprattutto culturalmente- per guardare alla realtà senza paraocchi, dal suo lato peggiore. Le verità sbattute in faccia, peggio ancora se inducono a riflettere aldilà delle consuetudini, fanno un male da cani. Si spiega con la paura di andare controcorrente il ricorso a dietrologie, finte-indignazioni, capri espiatori.

Una canzone a suo tempo censurata e che si è potuta ascoltare quasi esclusivamente nel corso dei concerti, ma di cui anche dopo si è continuato a parlare poco, quasi a non volerla neanche attribuire a Gaber…
Questo è uno dei motivi che mi hanno portato a scrivere questo libro: Io se fossi Dio è un passaggio incidentale nella, pur corposa, bibliografia su Giorgio Gaber. E del resto basta guardare all’atteggiamento dei media (stampa e tv) e -mi spiace dirlo- della stessa Fondazione Gaber, in occasione dei dieci anni dalla morte. L’officio delle celebrazioni ufficiali si è immancabilmente riversato sull’opinione pubblica via soliti noti, solite comparsate, soliti articoli, soliti discorsi, solite canzoni. Si è rinvigorita in gruppo la memoria assopita, e ripassato un po’del bignamino su vita, morte & miracoli (artistici) di Gaber. Niente di nuovo sul fronte del conformismo mediatico: qualcuno tra i lettori/spettatori, se la sarà bevuta, qualcun altro si sarà persino commosso.
Personalmente ho riso per non piangere (di sconforto): un incipit da coccodrillo più o meno convenzionale, e via andare con le bio-stazioni obbligatorie dei due corsari, del varietà tv, dello shampoo, del Signor G, di destra/sinistra, alla faccia dell’idiosincrasia verso i luoghi comuni del grande assente -Gaber in persona- di cui si tace la divergenza ideologica, per renderlo santino laico perbene: trasgressivo e ultra-intelligente -vabbè- però anche rassicurante, non ci dimentichiamo che ha cantato con Mina e scritto Porta romana. Tutto questo nuoce gravemente alla salute della libertà di pensiero. Io se fossi Dio sta a Giorgio Gaber di gran lunga più del Cerrutti Gino, solo che fa paura, sgomenta, dà fastidio, e dunque va rimossa. Anche perché se si guarda allo stratificato atteggiamento da struzzi, gli anni Ottanta non sono mai finiti.

Come raccontano la nascita e il carattere di questa canzone Sergio Farina e Sandro Luporini, nelle loro interviste inedite?
Al contrario di alcuni sacerdoti e sacerdotesse consacrati alla memoria del Genio scomparso, tanto Luporini quanto Farina hanno raccontano in questo libro la loro Io se fossi Dio, e l’hanno fatto in assoluta aderenza alla realtà. A volere rintracciare un filo rosso nelle rispettive dichiarazioni, mi sembra riscontrarsi nella sorpresa, nel carattere inedito, di assoluta novità che lo spessore di questa ballata ha rappresentato anche per loro. Non se l’aspettavano, in parole povere. Forse Luporini -in quanto coautore dei testi e dei monologhi gaberiani- un po’ sì. Ma Sergio Farina (che di Io se fossi Dio è l’arrangiatore) decisamente no. Non si aspettava un pezzo, nel bene e nel male tanto forte, spietato, coraggioso, sui generis. A riprova di come Gaber avesse, invece, idee molto chiare su dove volesse parare con questa canzone, proprio Farina, nel libro, si sofferma sulla primogenitura dell’orchestrazione sinfonica, che è tutta di Gaber. Sin da subito: quel crescendo alla Dies irae che nel disco evidenzia proprio il passaggio sulle BR, aprendo al climax della canzone, amplificandone la portata apocalittica, è suo. L’ira del dio incazzato davanti a uno “scontro quotidiano” ormai senza quartiere e senza soluzione di continuità.

Per un libro come questo non era immaginabile altro editore che Stampa alternativa?
Sinceramente credo proprio di no. Se le immagina RCS o Mondadori editare un libro sulla ballata più invereconda e meno allineata che la storia della canzone ricordi? Ci voleva un’editrice come Stampa Alternativa, per un libro anti-agiografico, ineducato, controcorrente, politico e polemico come questo mio su Io se fossi Dio. Sin da subito Stampa Alternativa non ha battuto ciglio né opposto censure: quarant’anni e passa dalla parte del torto non si improvvisano e non trascorrono invano. Peccato solo che la famiglia Gaber ci abbia negato i diritti per ripubblicare il disco, avremmo voluto ridistribuirlo col libro, non foss’altro che per motivi filologici. Io se fossi Dio è una ballata più che mai necessaria, che andrebbe ascoltata/introiettata, prima ancora che spiegata.