Potere assoluto: l’Unione Europea, un’architettura autoritaria che non ammette riforme

29 giu – Questa Unione Europea non prevede meccanismi di riforma dal basso, né nazionali, né tantomeno popolari: è ora di prenderne atto, avverte il costituzionalista Gianni Ferrara, professore emerito della Sapienza. Riformare la burocrazia di Bruxelles? Semplicemente impossibile: si tratta di un’architettura autoritaria, che non concepisce neppure la possibilità di essere migliorata in senso democratico. Questo vale anche per l’ipotesi di referendum contro la trappola del Fiscal Compact, il regime fiscale che impedisce allo Stato di investire per i cittadini attraverso la spesa pubblica a sostegno del welfare, secondo le reali necessità della comunità nazionale.

Esplorare i labirinti di Bruxelles è come affrontare un viaggio «dentro l’ingranaggio mortifero che è stato costruito in poco più di 30 anni, nella completa sottovalutazione della classe politica italiana, e dall’ex “sinistra” soprattutto». Un capestro che non lascia spiragli, «tantomeno per quei paesi che stolidamente hanno inserito il pareggio di bilancio nella propria Costituzione senza neppure un accenno di discussione politico-parlamentare, figuriamoci sociale».

Illuminante, osserva Dante Barontini su “Contropiano”, la lectio magistralis che Ferrara, «comunista di vecchia e seria scuola», ha offerto al seminario Van Rompuy promosso a Roma a fine maggio dal Comitato No-Debito sull’Europa del Fiscal Compact, che all’Italia impone un taglio aggiuntivo di 50 miliardi l’anno sulla spesa pubblica. Punto di non ritorno: la pericolosa cessione di sovranità nazionale verso Bruxelles in materia fiscale e di bilancio. «Una conseguenza della cosiddetta “legge La Pergola”, che fissava la prevalenza delle norme comunitarie su quelle nazionali prevedendo l’adeguamento di queste ultime».

Antonio La Pergola, aggiunge Barontini, è stata una figura tipica di quel personale tecnico-politico transnazionale che ha contribuito a costruire il fatale ingranaggio che ci sta strangolando. Docente di diritto costituzionale a Padova, Bologna e Roma, ma anche a Edimburgo, L’Aja, Dublino e Harvard, La Pergola è stato pure presidente della Corte Costituzionale e poi ministro per le politiche comunitarie, «a chiudere il cerchio tra preparazione teorica, disegno progettuale e realizzazione pratica».

Il Fiscal Compact? E’ un trattato-capestro, pensato per evitare la via maestra dei cambiamenti istituzionali consensuali, «saltando pressoché completamente la partecipazione degli Stati alla sua elaborazione». Potere dall’alto, come nel medioevo: «I Parlamenti non sono stati nemmeno coinvolti, ammesso e non concesso che avessero competenze interne e volontà politica di farlo». Il nostro paese non fa ovviamente eccezione: «L’Italia – ovvero il Parlamento esautorato dal governo Monti – ha approvato senza discussione, nell’aprile 2012, l’inserimento nell’articolo 81 della Costituzione l’obbligo al pareggio di bilancio». Volutamente, la maggioranza è stata così ampia – molto superiore alla soglia necessaria del 66% – da impedire qualsiasi possibilità di convocare un referendum abrogativo. Modificare il Fiscal Compact? Bel problema, per via di due Antonio La Pergolaostacoli: il meccanismo interno a quel trattato e l’articolo 81 della Costituzione italiana, modificato nel 2012.

Il primo problema, spiega Ferrara, sta nel fatto che i trattati internazionali – sottoscritti dai governi nazionali – sono sottratti alla ratifica parlamentare, in rispetto al principio che “pacta servanda sunt”. I limiti possono essere temporali – ma il Fiscal Compact sarà in piedi anche tra vent’anni, «quando di questo paese non sarà rimasta pietra su pietra». In teoria, potrebbe venir meno l’oggetto del trattato, ma in questo caso si tratta di politiche fiscali e di bilancio – niente di transitorio. Infine, il trattato può decadere se sfumano le condizioni che l’hanno costituito. Idem: «Le condizioni qui coincidono con una “maggiore integrazione europea”, e quindi non scadono se non a fronte di un rivoluzionamento oppure di una guerra». Domanda: esistono strumenti giuridici per bloccarne o stemperarne l’efficacia? Anche qui Ferrara non lascia troppi margini all’illusione: si può tentare di indire un “referendum di indirizzo”, che non contenga prescrizioni obbligatorie per governo e Parlamento, ma la sua efficacia sarebbe praticamente nulla, anche se la consultazione popolare si concludesse con un plebiscito contro il “trattato del rigore”.

L’altra notizia è che neppure il Parlamento Europeo ha alcuna sovranità in materia di trattati: i deputati di Strasburgo, infatti, sono privi della fondamentale prerogativa tipica di ogni onorevole o senatore che si rispetti, a livello mondiale: non possono proporre leggi. E allora a che serve un Parlamento senza potere legislativo? Un potere superiore ce l’ha invece la Commissione Europea, oggi presieduta da Barroso: può infatti elaborare “direttive” con valore di legge, ma – per statuto – deve farlo solo per “realizzare gli obiettivi” del Trattato di Lisbona.

E così, il cerchio si chiude: «A livello europeo – sintetizza Barontini – non sono previste procedure di riforma istituzionale che correggano parti rilevanti del trattato fondamentale, quello costituente. Si può solo andare avanti, senza mai sterzare e tantomeno tornare indietro». L’insieme dei governi nazionali «elabora decisioni in modo da nascondere la responsabilità dei singoli Stati». Così, «ne nasce una retorica falsificante, per cui ogni governo nega di Letta e Barrosoesser stato tra coloro che hanno caldeggiato determinate scelte impopolari e si rifugia dietro lo slogan “lo chiede l’Europa”».

Soprattutto, viene così meno – definitivamente – uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto: la responsabilità degli eletti di fronte agli elettori. «Per avere la possibilità – in quanto italiani – di chiedere una modifica di alcuni trattati, occorrerebbe una nuova regola costituzionale. Ma chi è il soggetto o lo schieramento politico che la farebbe passare? E in ogni caso, saremmo vincolati dagli altri 26 Stati che componegono l’Unione». Conclusione obbligatoria: «Non è un referendum di indirizzo che può realizzare l’obiettivo di invalidare il Fiscal Compact o altri trattati europei». Certo, come sostiene Giorgio Cremaschi, in ogni caso una campagna referendaria può esser utile a far diffondere una consapevolezza circa la dannosità di quei trattati e della moneta unica così concepita. Ma a patto di essere ben coscienti che anche l’eventuale svolgimento della consultazione – nel caso molto remoto che venga concessa – non costituirebbe una soluzione efficace, proprio per la natura di quel tipo di referendum.

Da scienziato militante, Ferrara ha indagato anche il Trattato di Lisbona per vedere se esiste un qualche appiglio giuridico per rimettere in discussione un dispositivo di quel genere. Ne ha trovato soltanto uno, in un articolo secondo cui ogni Parlamento nazionale può sottoporre al Consiglio (dei capi di Stato e di governo della Ue) una richiesta di mutamento dei trattati. «È possibile, non certo che ci si riesca. Ma in ogni caso occorre avere la maggioranza all’interno di un Parlamento nazionale», ipotesi al momento lontana. Poi c’è l’articolo 11 del Trattato di Lisbona, che ammette la possibilità di una proposta di modifica sottoscritta da almeno un milione di cittadini europei, appartenenti ad almeno un quarto degli Stati membri (quindi almeno sette Stati), secondo quote numeriche minime fissate da tabelle in proporzione alla popolazione. «Una strada certo empiricamente praticabile, ma istituzionalmente di dubbia efficacia: alla fine, questa simil-“legge di iniziativa popolare” finirebbe sul tavolo della Commissione – del governo comunitario, insomma – che ne avvierebbe l’esame e poi deciderebbe come le pare». Come sopra: utile campagna di sensibilizzazione politica, ma non sufficiente a rovesciare il tavolo.

In ogni caso, aggiunge “Contropiano” citando Ferrara, anche qui sorgerebbe, fin dall’inizio, un problema di ammissibilità, perché le modifiche proposte devono sempre rispondere al principio di “miglioramento” dei trattati. Obiezione in teoria non insuperabile, dal momento che l’Unione Europea deve perseguire tra l’altro la “dignità umana”, «ed è molto facile dimostrare come i trattati oggi in vigore la stiamo mettendo in forse in numerosi paesi deboli». L’ostacolo definitivo è un altro: «Anche in caso di accoglimento della “proposta di modifica” popolare da parte della Commissione, questa diventerebbe efficace solo dopo la scadenza del trattato. Che non è nemmeno prevista». Perfetto, no? E’ l’ingranaggio della costruzione europea, incardinato negli articoli 119 e 120 del Trattato fondamentale, che riconoscono esplicitamente come principi generali di funzionamento dell’Unione “l’economia di mercato” e la “libera concorrenza”. «È qui che origina quel programma di smantellamento del Gianni Ferrara“modello sociale europeo”», fondato sul welfare che ha funzionato benissimo per trent’anni, senza complicazioni targate Bruxelles.

Proprio il “sanfedismo” imprenditoriale italiano targato Berlusconi, secondo Ferrara «ha fatalmente “deviato” il senso comune della “sinistra” verso un europeismo acefalo e disinformato». Una sorta di illusione collettiva per cui, «se ci mettevamo agli ordini di questa Unione Europea, ci saremmo anche sbarazzati di Berlusconi, degli imprenditori prendi-e-scappa, di mafia, camorra, ‘ndrangheta e compagnia cantando».

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Ed eccoci qui, vessati da un’Unione Europea non riformabile. Pessima notizia: «E’ certo significativo che un potere assoluto torni ad avere legittimità e comando, nel Vecchio Continente, a poco più di due secoli dalla Rivoluzione Francese, ad uno da quella Russa». Corollario: «L’impossibilità di riformare la Ue implica l’inutilità del “riformismo progressista”», svuotato e ridotto a «logorrea fantasiosa quanto impotente: non è un caso che sia emerso un Vendola». Ma un sistema istituzionale che non si può riformare, rileva Barontini, lascia come unica possibilità soltanto quella della rivoluzione. Lo ammette anche Ferrara: ogni efficace cambiamento della struttura istituzionale europea non potrà che avere carattere rivoluzionario. «Del resto, se è rinato un potere assoluto, significa che sono state eliminate le vie della mediazione, a cominciare da quelle giuridiche e costituzionali: invece di Luigi XIV c’è un Kaiser “collettivo”, un’oligarchia per nulla illuminata».

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