19 giu – Un decreto del «fare»: 80 misure 80! Un gran lavoratore, questo Letta. Destre e sinistre, industriali e sindacati, ecologisti e terzomondisti, tutti contenti. Più di tutti Berlusconi. Vedremo cosa ne esce. Ha proposto anche di accelerare le procedure per concedere la cittadinanza agli extracomunitari. Facendo prevalere sul «jus sanguinis» il «jus soli». Un tema caldo, sul quale tante bischerate sono state dette. Comprensibile, dato il non eccelso livello intellettuale e culturale degli addetti ai lavori. Occorrerebbe, invece, usare meno i muscoli e più la mente.
La cittadinanza nasce necessariamente come diritto del sangue. Da quando l’umanità ha scoperto la famiglia, di cui i figli legittimi sono il fine primario. Leggere Vico per credere. Sono poi venute la città e la nazione. Anch’esse fondate sul sangue. Italiani perché figli di italiani. Così era in Grecia, a Roma, così nelle nazioni europee, fondate dai «barbari».
Ma il diritto del sangue non basta più in una società multietnica. Accadde nell’Impero Romano: una volta accettati i barbari, per farne i difensori dei confini, divenne inevitabile dar loro la cittadinanza. Fu con Caracalla (212), imperatore debole e criminale, che aveva preso il potere uccidendo il fratello Geta. Egli concesse la cittadinanza a tutti gli uomini liberi che vivevano nell’impero. Soprattutto per aumentare il gettito fiscale. Ma è una legge antropologica che il diritto del sangue unisce la comunità, quanto il diritto del suolo la indebolisce. Caracalla aprì le porte a cinquant’anni di anarchia militare: 20 imperatori e 40 usurpatori. E alla invasione dei barbari.
Anche la nostra società è ormai un «melting pot», uomini di tante culture, che vi penetrano e vi lavorano, aspirando ad avere i diritti della cittadinanza. Il problema è reale e chiede una soluzione equilibrata e concreta. Non è vero che basterà partorire in Italia perché il figlio abbia automaticamente la cittadinanza. Non sarà così da noi come non lo è in nessuna nazione del mondo. In circa trenta paesi, questo diritto esiste, in alcune più facile, in altre meno. Mai automatico.
Gli Usa sono nati dai migranti, cittadini perché sbarcati. È naturale che siano i più larghi in merito. Oggi essi riconoscono questo diritto, ma cercano di limitarlo, preoccupati della crescente perdita di identità nazionale. Una perdita favorita dalla «morale relativistica» del Partito Democratico (come ha mostrato Samuel Huntington nella sua ultima ricerca, La nuova America, Garzanti 2005).
Del resto, il jus soli esiste anche in Italia, dal 1992 (legge 91), ma solo per figli di apolidi o di ignoti. In vent’anni, la situazione è così mutata, che bisogna aggiornarla. Per riuscirci, occorre assumere una via media, egualmente lontana dall’oltranzismo della Lega Nord e dal masochismo della sinistra radicale. Bisogna lasciarsi guidare dal buon senso, che impone di dare risposte ad una situazione che ormai da decenni, a causa della scarsa coscienza della classe politica, si è aggravata e incancrenita. Se da anni uno straniero vive e lavora in Italia, giusto riconoscerlo cittadino, lui e i suoi figli.
Un buon punto di partenza è il progetto della ministra Cécil Kyenge, donna di notevole moderazione. Ella propone di concederla, quando compiranno i 18 anni, ai figli di chi risiede in Italia da 5 anni. Si può discutere il periodo richiesto, che in Germania è di 8 e in Svizzera di 12 anni, ma è la strada giusta. Purché questa comprensibile concessione della cittadinanza sia accompagnata da programmazioni migratorie realistiche, che limitino al massimo l’entrata ed espellano gli irregolari. La presenza dei migranti è stata a lungo sollecitata come utile alla produttività, soprattutto perché gli italiani rifiutavano i lavori faticosi e poco redditizi. Purtroppo le parole con cui Cécil ha accompagnato la sua proposta sono del tutto inadeguate e irrealistiche. Dire che il lavoro dei migranti sarà utile alla ripresa produttiva e rallegrarsi per le loro imprese economiche significa dimenticare che la disoccupazione degli italiani, soprattutto dei giovani, ha raggiunto tali cifre, che accogliere ancora lavoratori stranieri sarebbe disastroso e antieconomico.
Un ritorno alla produttività non sarà certo facile in tutta Europa, ma per esso non abbiamo bisogno di migranti, occorre invece valorizzare la mano d’opera italiana, oggi, in parte rilevante, sostituita da lavoratori stranieri, ma anche comunitari, che non sono in aggiunta, ma in sostituzione dei nostri. Come mostra la chiusura di tante attività, non poche assunte proprio da immigrati. Col tempo, la civiltà multietnica rischia di ridurre gli italiani ad una minoranza. Come già sta accadendo in non pochi quartieri, scuole, professioni. La concessione della cittadinanza è giusta, ma la rigida programmazione dei flussi ancora più importante.
Apostola della emancipazione degli africani, Cécil ragiona col cuore. Ci dice che l’Italia è un paese «meticcio» (parola usata anche dal card. Scola), ma i meticci esistono nella biologia, non nelle civiltà. In Italia non siamo meticci, perché l’integrazione, come dovunque, è fallita, creando gravi e difficili problemi: nessuna integrazione multietnica, ma una sicura disintegrazione nazionale (Giovanni Sartori lo aveva profetizzato nel 2000, col suo Saggio sulla civiltà multietnica, Rizzoli).
Il meticcio è un individuo biologico, sia pure derivato da genitori di razza diversa. Le civiltà sono entità spirituali, possono avere molte culture (Little Italy, China Town, Harlem), ma nessun meticciato. Culture che convivono ma non si integrano. A Cécil, valente oculista, è stato assegnato per meriti politici e di colore il ministero della «integrazione», forse era meglio affidarle un dicastero sanitario.
di Gianfranco Morra