EURABIA Parte prima IL PROGETTO Capitolo 1 – I processi che determinano l’evoluzione e il mutamento delle società umane, facendole insensibilmente scivolare verso scenari insospettabili, sono difficili da cogliere nel breve periodo. Non avvertite dai contemporanei, queste sottili correnti agiscono sul tessuto sociale, demografico, istituzionale e culturale per interi decenni, se non per secoli, e, poiché nulla traspare in superficie, l’apparente stabilità sociale e politica rassicura i popoli; ma intanto, dalle crepe che incrinano l’edificio, affiorano impercettibilmente le forme del futuro.
Lo stesso vale per lo schema storico – oggi si direbbe il «software» – che ha trasformato le civiltà ebraico-cristiane del Sud del Mediterraneo in civiltà islamica. A produrre tale mutamento hanno contribuito due fattori essenziali: il jihād e la dhimmitudine. Per oltre un millennio, il jihād ha costituito la forza militare e politica che ha sottomesso e, nella maggior parte dei casi, annientato le civiltà zoroastriana, cristiana, indù e buddista in Africa, Europa e Asia. Ma poiché a questi eserciti, numericamente inferiori, le conquiste militari non bastavano per islamizzare le immense popolazioni conquistate, il processo è stato integrato mediante la dhimmitudine, un sistema giuridico e religioso basato sulla discriminazione nei confronti dei non musulmani, che, salvo in alcune zone dell’Europa centrale, li ha ridotti allo status di minoranze fossili, quando non li ha del tutto eliminati. Il mondo islamico che oggi conosciamo è il risultato dell’azione combinata di queste due forze storiche.
Il mio libro esamina il modo in cui questo software è stato adattato alla realtà politica odierna per modellarla in questa medesima struttura storica, indotta da due correnti – le forze esterne e le collusioni interne – le prime delle quali poggiano sulle seconde.
Fin dagli anni ’70, una sorta di tabù aveva circondato l’argomento in Europa, anzi, lo aveva addirittura estromesso dalla storia.
È stato necessario attendere l’attacco jihadista agli USA dell’11 settembre 2001 perché il muro di silenzio si rompesse. Infatti la guerra dichiarata dal presidente Bush al terrorismo islamico ha sconvolto i leader politici europei, mentre al tempo stesso le inchieste giudiziarie rivelavano che la maggior parte degli attentati terroristici contro gli Stati Uniti e gli altri paesi era stata istigata da cellule islamiche sparse per l’Europa. Così, le onde d’urto dell’11 settembre hanno raggiunto l’Europa:nelle sue periferie, tra gli immigrati, si sono rivelate chiaramente la popolarità di Bin Laden e la fierezza per gli attacchi terroristici sferrati all’America, simbolo di un Occidente odiato.
Stupefatti e costretti a uscire dal loro torpore, gli europei hanno iniziato allora a scoprire il nuovo volto di Eurabia: un continente in balia della paura, del silenzio, della dissimulazione e della diffamazione, che non aveva ormai più niente a che vedere con l’Europa. Fin dal VII secolo, e per oltre un millennio, l’Europa aveva resistito alle armate jihadiste che, dai territori islamici, muovevano all’assalto delle sue isole e delle sue coste. Ma a partire dal 1968, sotto la pressione del terrorismo palestinese, dell’attrattiva esercitata dall’oro nero e di uno strisciante antisemitismo, la CEE ha inaugurato una linea del tutto diversa, optando deliberatamente per una politica di integrazione con il mondo arabo, secondo una dottrina che prevedeva l’unificazione delle due sponde del Mediterraneo. L’Europa doveva riconciliarsi con un mondo che avrebbe poi incorporato, e che l’avrebbe portata a espandersi in Africa e in Asia. I tre sintomi più evidenti di questa politica? L’antiamericanismo, l’antisemitismo/antisionismo e il culto per la causa palestinese, tre orientamenti imposti e diffusi dai vertici dell’Unione Europea in ogni stato membro, dagli strati più alti a quelli più bassi della scala sociale, tramite un potente apparato e una fitta rete organizzativa.
Nella confusione generata dall’improvvisa comparsa del terrorismo islamico sul suolo americano, dalla guerra contro i talebani in Afghanistan e dalla politica del caos e delle bombe umane inaugurata da Arafat in Israele, i governi europei, legati a doppio filo ai paesi arabi, hanno adottato la politica dello struzzo, facendo a gara a dichiarare che il terrorismo islamico non esisteva. Quello che impropriamente veniva definito «terrorismo», altro non era che l’esito della follia, la stupidità e l’arroganza della politica americana, della sua «ingiustizia» nei confronti dei palestinesi, della sua strategia dei «due pesi e due misure». La vera fonte del terrorismo, la causa principale della guerra era Israele, genericamente designato come «l’ingiustizia» e responsabile, con la sua sola esistenza, della frustrazione e umiliazione del mondo islamico, della miseria, della disperazione e di tutti gli altri innumerevoli mali che affliggono 22 paesi arabi, nonché delle guerre che insanguinano il pianeta. Bastava eliminare «l’ingiustizia» per portare a compimento l’armoniosa intesa euroaraba, la purificazione del mondo e la pace.
Ma chi si opponeva a tutto ciò? Gli Stati Uniti, che l’11 settembre avevano ricevuto una meritata lezione, e le comunità ebraiche della diaspora. Allora l’Unione Europea e la sua potente
Commissione hanno dispiegato le loro batterie mediatiche contro l’America e Israele, bombardando tutti gli strati sociali con il linguaggio di Eurabia, di cui si è avuto un primo saggio al Forum internazionale di Stoccolma (gennaio-febbraio 2004). Qui ha fatto la sua comparsa una composizione «artistica» in onore di una kamikaze islamica che aveva massacrato 21 israeliani, uomini, donne e bambini per lo più cristiani, seduti tranquillamente a tavola in un ristorante di Haifa in una bella domenica di sole. Il suo ritratto è stato affisso alle pareti di 26 stazioni della metropolitana.
Ma, su un piano più prosaico, la febbre antisemita ha portato al moltiplicarsi nel quotidiano delle aggressioni fisiche e verbali contro gli ebrei, nelle scuole, per le strade, nelle sinagoghe e nei cimiteri di Francia, Gran Bretagna, Svezia, Spagna e Norvegia. Il tutto in un clima di beffarda impunità, di autismo su scala europea, accompagnato dalla celebrazione della vittimologia palestinese.
Gli stati dell’Unione Europea hanno iniziato a dare segni di turbamento solo quando questi eventi, per lo più scoperti dalla stampa americana, hanno iniziato a suscitare scandalo.
Ma il vero volto di Eurabia si è visto anche nelle folle deliranti che, negli anni 2002-03, hanno percorso senza sosta le città europee bruciando bandiere americane e israeliane, gridando la loro solidarietà a Saddam Hussein e Arafat, schernendo Bush e Sharon, flagellandosi per il fatto stesso di essere europee e, quindi, colpevoli. Sembrava che il Mediterraneo fosse evaporato e l’Europa, sconvolta dal terrore e protetta da un apparato di polizia mai vista prima, si fosse trasformata in un’appendice del tumultuante mondo arabo. Ma di che cosa si aveva paura, dal momento che il terrorismo non esisteva? Secondo le dichiarazioni ufficiali di Eurabia, quelle misure servivano solo a proteggersi dall’arroganza di Bushe dall’«ingiustizia» di Israele, i pilastri del terrorismo islamico.
Nel frattempo, la zampata americana al formicaio jihadista metteva in luce le filiere del terrorismo islamico e i suoi finanziamenti, accuratamente protetti e occultati all’interno degli stati dell’Unione Europea grazie alla politica della «santuarizzazione». È mancato poco che il proliferare di libri sul jihād moderno nei paesi d’oltreatlantico e lo scoppio della guerra contro Saddam
Hussein, idolo delle masse arabe ed euroarabe, provocassero una frattura nell’Unione Europea, divisa tra fautori e nemici di Saddam. Ma c’è di più: le consuete diversioni sui temi dell’«ingiustizia» e dell’«occupazione» sono state per la prima volta contrastate dalle reazioni indignate di Oriana Fallaci, Pierre- André Taguieff, Shmuel Trigano, Alexandre Del Valle e moltissimi altri, che a fatica sono riusciti a superare gli sbarramenti eretti dagli euroarabi. Solo allora gli europei hanno osato parlare delle «sacche di illegalità», dei ripetuti episodi di intifada nelle periferie, della poligamia, della discriminazione nei confronti delle donne musulmane residenti in Europa, del rifiuto della promiscuità nelle scuole e di tutto un contesto sociale in cui si mescolavano miseria, droga, insicurezza e odio per l’Occidente.
L’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004, che ha provocato 191 morti e circa 2000 feriti ed è stato organizzato da islamici marocchini e di altre nazionalità residenti in Spagna, ha posto fine alle oscillazioni tra Europa ed Eurabia. Le elezioni spagnole, svoltesi tre giorni dopo, hanno sostituito il governo Aznar, alleato di Bush, con quello di Zapatero, che si è affrettato a ufficializzare il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, la sua ostilità a Bush, il suo appoggio al mondo arabo, la regolarizzazione di 700.000 immigrati clandestini, per lo più originari del Maghreb, e l’Alleanza delle Civiltà [vedi «Conclusioni»].
Mentre i giornali rivelavano il coinvolgimento di gruppi di musulmani europei, immigrati o convertiti, nelle file del jihād, e si facevano più frequenti le decapitazioni di ostaggi con sottofondo di declamazioni del Corano; mentre le dichiarazioni di Bin Laden riportavano in vita il Medio Evo, i ministri europei si sono affrettati a recarsi da Arafat per giurargli la loro fedeltà, accompagnata da bei miliardi sonanti. La Commissione Europea ha dato fiato alle trombe per sbandierare ai quattro venti i peccati capitali di Israele, e ha preteso che Blair facesse pressioni sull’America per convincerla a piegare la resistenza dello stato ebraico, inducendolo a rinunciare alle sue insignificanti e meschine esigenze di sicurezza. Intanto, in Germania, da un sondaggio condotto tra i giovani immigrati turchi emergeva che per un terzo degli intervistati quella islamica avrebbe dovuto diventare dappertutto la religione di stato; il 56% di loro ha dichiarato che non vuole adattarsi ai costumi occidentali, e che ritiene più giusto vivere secondo l’islām. Oltre un terzo si è detto pronto a usare la violenza contro i non musulmani, se ciò può giovare alla comunità islamica, e almeno il 40% pensa che il sionismo, l’Unione
Europea e gli Stati Uniti costituiscano una minaccia per il mondo islamico 3.
Mentre la stampa svelava le strategie di reclutamento dei terroristi da parte di al-Qā‘ida tra gli studenti o negli ambienti colti e borghesi d’Europa, le università europee, istigate dai palestinesi,
hanno lanciato, a partire dal luglio 2002, un boicottaggio internazionale contro i docenti universitari e i ricercatori israeliani.
Alcune Chiese riformate hanno inoltre approvato il boicottaggio di tutte le imprese commerciali che operano nello stato ebraico.
La morsa dell’apartheid politico, economico, culturale, artistico e scientifico di Eurabia si è stretta intorno a Israele, secondo una logica che tentava di controbilanciare la lotta al terrorismo islamico con il rafforzamento delle politiche antiisraeliane.
Nell’ottobre del 2004, l’assassinio ad Amsterdam del regista Theo van Gogh, grande critico dell’islām, che seguiva quello, avvenuto nel 2002, di Pym Fortuyn, politico noto per il suo orientamento antiimmigrazione, ha sollevato un’ondata di indignazione in Olanda. All’improvviso la paura si è insinuata nel paese e la polizia ha dovuto iniziare a proteggere gli intellettuali e i politici i cui discorsi suonavano blasfemi agli islamici. D’un tratto, gli olandesi hanno scoperto che il diritto alla sicurezza e alla libertà di espressione di cui, dandolo per scontato, avevano sempre goduto, era stato loro sottratto, sostituito da altre leggi, non ufficiali e straniere. In questo contesto di autocensura e timore il giornale danese «Jyllands-Posten», nel settembre del 2003, ha pubblicato 12 caricature del profeta Maometto. Lo scopo non era offendere i musulmani, ma testare l’effettivo grado di libertà di espressione e di stampa presente in Danimarca.
Intanto, in Inghilterra l’impegno di Tony Blair in Iraq portava con sé minacce e oscuri presagi, che il governo laburista, dilaniato tra la sua vocazione atlantica e le sue affinità con gli arabi, ha tentato di neutralizzare con una politica lassista verso l’islām e una deriva antisemita. Il 7 luglio 2004 il sindaco di Londra, Ken Livingstone, ha accolto con grande ostentazione lo shaikh ’Al-Qaradhāwi, istigatore delle bombe umane in Israele. Mostrandosi in pubblico in sua compagnia, Livingstone ha redarguito con sussiego gli esponenti della comunità ebraica che avevano osato contestarlo e si è servilmente scusato con lo shaikh per l’isterismo e la xenofobia di certa stampa, che rivelava così la sua ignoranza nei confronti dell’islām. Il 17 febbraio 2005 il sindaco ha espresso la propria solidarietà allo shaikh nel corso di una conferenza tenutasi a Doha (Qatar) 4. Tutta fatica sprecata. Nonostante questi atti di ossequio, il 7 luglio 2005 un gruppo di kamikaze islamici provenienti dalla borghesia inglese si sono fatti esplodere su alcuni autobus e vetture della metropolitana di Londra. La tanto celebrata politica di Arafat, fondata sul caos e sulle bombe umane, si estendeva all’Europa.
Per placare i musulmani, il governo Blair ha fatto subito appello a ゚āriq Ramaョān: il discusso esponente islamico è stato invitato a Oxford per insegnarvi l’euroislam 5. Da tempo i governi europei affidavano il compito di far rispettare l’ordine e la legge nei quartieri prevalentemente popolati da stranieri a funzionari o poliziotti musulmani. Lo stesso copione è stato seguito dopo l’attentato di Londra: per ristabilire la sicurezza, lo stato ha fatto ricorso ad alcune celebri personalità islamiche, pregandole cortesemente di tenere a freno gli immigrati più esagitati. Proprio questi gruppi, istituiti per consigliare Blair sulle politiche da adottare nei confronti dei musulmani, hanno chiesto, all’inizio del 2006, che fosse abolita la commemorazione della Shoah perché offendeva l’islām. Per il «Sunday Telegraph» (19 febbraio 2006), il 40% dei musulmani inglesi è favorevole a introdurre la shari’a nelle zone a maggioranza islamica. Durante la vicenda delle vignette satiriche, Livingstone ha pensato di accrescere il suo elettorato musulmano insultando grossolanamente un giornalista ebreo che lo stava intervistando. All’inizio del 2006, è stato condannato dalla giustizia britannica.
In Francia, nel 2004, il divieto di portare il velo islamico e ogni altro segno esteriore di culto nelle scuole della Repubblica ha suscitato in alcuni ambienti musulmani una fiera opposizione, alla quale si sono uniti i paesi arabi. Ma lo stato non ha ceduto, e, sotto il pugno di ferro del ministro degli Interni Nikolas Sarkozy, ha anche tentato di riprendere il controllo delle aree di illegalità in cui le forze dell’ordine non osavano più entrare. Tra l’ottobre e il novembre del 2005 le periferie hanno preso fuoco.
Non erano i primi episodi di intifada sul suolo francese: da anni i politici europei celebravano i gesti di violenza omicida dei bambini e dei giovani palestinesi, e questa ammirazione aveva provocato emuli in Svezia, Gran Bretagna, Danimarca e altrove; in Francia, nelle città popolate da immigrati indottrinati dall’islamismo, le forze dell’ordine erano considerate occupanti (a eccezione di alcuni quartieri, sede di traffici mafiosi). La guerriglia urbana si è estesa a numerose città: vetture e autobus dati alle fiamme, scuole, asili, beni pubblici e privati distrutti, saccheggi. Sono stati attaccati centri culturali e sportivi, biblioteche, edifici, chiese e sinagoghe. Ovunque si sentiva gridare: «Allahul Akbar!» e «Siamo a Gerusalemme!».
Ma l’intifada delle periferie francesi è stata ben presto eclissata dall’orrore e dalla violenza delle reazioni suscitate nel mondo islamico dalle caricature danesi. Due mesi dopo la loro pubblicazione, alcuni imām danesi si sono recati in Egitto, Siria e Libano muniti di un dossier di 42 pagine contenente le vignette originali, più alcune altre create ad hoc da loro. Per mobilitare il mondo musulmano contro il proprio paese, hanno mostrato le vignette ai ministri della Lega Araba, agli shaikh e agli imām. A partire dal febbraio del 2006 dall’Indonesia a Gaza si è scatenata una serie di spaventose sommosse, incendi di ambasciate e uccisioni, mentre le minacce di morte ai giornalisti e le pressioni sui media creavano un clima di terrore in Europa. Intanto, altri giornali hanno ripreso le caricature, prima in Norvegia, poi in Francia, Inghilterra, Italia e Spagna, e un sacerdote è stato assassinato in Turchia. Il 29 gennaio 2006, in Iraq, sette chiese sono state distrutte da macchine imbottite di esplosivo, e i cristiani locali hanno subito pesanti minacce. Il mondo islamico ha parlato allora di guerra dell’Occidente contro l’islām, di bestemmia e di islamofobia, e gli europei hanno risposto invocando il principio di laicità, la libertà di espressione e di stampa. Un dialogo tra sordi.
Nonostante le enormi pressioni e il boicottaggio economico, il governo danese di Anders Fogh Rasmussen non ha ceduto. Non è stato così per la Norvegia, che il 20 febbraio ha capitolato. Per molti giorni Velbjorn Selbekk, l’editore del piccolo giornale che aveva pubblicato le vignette, aveva resistito alle pressioni congiunte degli estremisti islamici, con le loro minacce di morte, e delle autorità norvegesi. Ma il giorno prima di un’altra oceanica manifestazione, il ministro norvegese del Lavoro e dell’Integrazione, Bjarne Hakon Hanssen, ha convocato in tutta fretta una conferenza stampa in un edificio governativo di Oslo. Lì, Selbekk ha porto le sue umili scuse per la pubblicazione delle vignette. Al suo fianco c’era Mu™ammad |amdān, rappresentante di 46 organizzazioni musulmane e presidente del Consiglio islamico di Norvegia. Erano presenti anche alcuni membri del governo norvegese e un imponente stuolo di imām norvegesi. Inoltre, una delegazione ufficiale norvegese ha incontrato nel Qatar Yūsuf ’al- Qaradhāwi e lo ha pregato di accettare le scuse di Selbekk 6. La rabbia islamica contro l’Europa si è riversata allora sugli ebrei, che pure erano del tutto estranei alla vicenda. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che aveva già minacciato Israele di un altro genocidio, ha subito bandito un concorso di caricature sulla Shoah, mentre tornava a galla l’antico argomento dei «due pesi e due misure». «Perché – ironizzavano gli spiriti fini, incapaci di distinguere tra diffamazione, incitamento al crimine e libertà di espressione – si invocava la libertà di espressione per le vignette, ma si condannava l’antisemitismo?» Nel pieno di questa ondata d’odio, sull’altare dell’antisemitismo è stata immolata una vittima ebraica: Ilan |alimi, un giovane di 23 anni, rapito e torturato a morte da una banda delle periferie parigine.
Nel corso di una conferenza dell’Unione Parlamentare Araba, tenutasi in Giordania nel febbraio del 2006, ‘Amr Mūsa, segretario generale della Lega Araba, ha dichiarato che le caricature facevano parte «di una campagna contro l’islām», e il segretario generale dell’Organization of the Islamic Conference (OIC), Ekmeleddin I™sanoglu, ha chiesto a Javier Solana, alto rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza Comune dell’UE (Unione Europea), l’approvazione di leggi contro l’islamofobia e l’introduzione di un nuovo codice per i media, «che tenga conto delle specifiche sensibilità dei musulmani». Nei paesi islamici non esiste un codice analogo per le altre religioni. I™sanoglu ha detto di considerare la questione delle vignette un nuovo 11 settembre, ma rivolto contro il mondo musulmano. Nella terza sessione straordinaria della Conferenza del vertice islamico svoltasi a La Mecca (7-8 dicembre 2005), l’assemblea ha approvato un piano d’azione per i successivi dieci anni. Nella sezione VII, «Combattere l’islamofobia», ha enunciato il proprio intento «di adoperarsi perché sia adottata una risoluzione delle Nazioni Unite finalizzata alla lotta contro l’islamofobia, e di invitare tutti gli stati ad approvare leggi, accompagnate da sanzioni deterrenti, per combattere l’islamofobia» 7.
La vicenda delle caricature ha messo in luce le divergenze esistenti in Europa tra i leader politici, che hanno tentato per lo più di vietarne la pubblicazione, e la gente comune – fra cui anche molti musulmani – che ha difeso la libertà di espressione e i valori occidentali. Ha inoltre evidenziato la presenza nel cuore dell’Europa di un conflitto di civiltà, che le autorità politiche cercavano da anni di occultare sotto una serie di tabù. Perciò dobbiamo essere riconoscenti a Flemming Rose, il responsabile danese della pubblicazione delle vignette, che oggi vive sotto scorta, per aver fatto saltare i tabù che imbavagliano gli europei, anche se questo obiettivo è stato raggiunto con le maniere forti, e a rischio di choccare certi ambienti. Era importante accertare in che direzione si muova l’Europa, e se, di soppiatto e con la benedizione delle autorità, le leggi della shari’a non vi stiano di fatto prendendo il sopravvento. Questa vicenda tutta europea ha messo dunque in luce da un lato l’insidiosa islamizzazione della cultura e delle istituzioni del vecchio continente, e dall’altro l’esasperazione, in alcuni casi lo sgomento, di certi ambienti, di fronte alle derive lassiste dei loro governi. L’Europa sta diventando il bersaglio di un tentativo di sovvertimento politico e culturale? Stiamo assistendo alla mutazione di un continente e alla nascita di Eurabia,b questo nuovo «spazio della dhimmitudine» creato dai politici, dagli intellettuali e dai media europei?
Il saggio di Bat Ye’or potete richiderlo a: redazione@imolaoggi.it