ROMANO PRODI VESCOVO SOGNATORE Non scalfìsce la sua candida immagine di buon tecnico-parrocchiano-padano neppure la pubblicazione del suo nome su un lungo resoconto pubblicato dalla Executive Intelligence Review in cui, in quanto consulente della banca d’affari di New York Goldman Sachs, veniva accusato di fare parte dell’entourage dello speculatore George Soros.
Inesorabilmente, nella tarda primavera del 1993 (era metà maggio) Tangentopoli falciò anche Franco Nobili, presidente in carica dell’Iri: il nome di Romano Prodi ritornò ancora più in auge. La candidatura del Professore a presidente dell’Istituto di via Veneto piacque al presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi (la stima è reciproca: tre anni dopo, da presidente del Consiglio Romano Prodi gli avrebbe affidato la guida del ministero del Bilancio e della programmazione economica).
Per la presidenza Iri i nomi che circolavano erano tanti, e fra questi c’era anche quello di Giuseppe Glisenti (l’ex presidente di Finmeccanica), ma il tam tam del toto nomine non durò a lungo. Il Professore, che è ambizioso quanto permaloso, quando deve prendere delle decisioni si narra che diventi meditativo (fin troppo, gli rimproverano alcuni amici). Dopo giorni di considerazioni, Romano Prodi alla fine accettò il prestigioso incarico che Carlo Azeglio Ciampi gli aveva offerto su un piatto d’argento. La decisione finale fu veramente sudata, non metaforicamente, ma letteralmente.
L’ex campione di ciclismo Gianni Bugno fu uno dei testimoni della scelta del Professore. Era domenica, Gianni Bugno, Romano Prodi e altri della compagnia pedalavano verso la Futa. Le cronache vogliono che, giunto al termine della salita (più precisamente a Monghidoro) il Professore sia stato fulminato, quasi si trovasse sulla via di Damasco. Durante una frettolosa quanto liberatoria fermata in una trattoria, pochi testimoni hanno potuto assistere alla celebre telefonata con Carlo Azeglio Ciampi. Poche parole tra cui: “Sì ci sto”.
Proprio lì da quella osteria in cima a quella brulla montagna prese il via il disastroso Prodi-Iri-due con Piero Barucci ministro dell’Industria. Naturalmente, Romano Prodi era ben voluto, non solo da Carlo Azeglio Ciampi, ma anche (e questa non è certamente una novità) da Oscar Luigi Scalfaro. Il (ancora teoricamente) neo presidente dell’Iri, accettando il prestigioso incarico, sapeva che la medicina adottata durante la passata gestione, vale a dire un’iniezione di finanza pubblica come mai si era visto nelle casse dell’Iri (11mila miliardi tra il 1980 e il 1985), questa volta non sarebbe stata attuabile. I conti pubblici gridavano ancora vendetta e, soprattutto, la via che doveva (o meglio, poteva) portare all’Europa non permetteva scialacqui.
Al Professore non rimaneva che rivolgersi al mercato, offrendo quello che era rimasto di appetibile. Riguardo la prima gestione dell’Iri, vale a dire il settennato 1982-1989, se ne sono scritte e dette di tutti i colori, ma una chiara visione d’insieme dello stato di salute dell’Iri dopo la presidenza Prodi è quasi impossibile da tratteggiare.
Alcuni hanno scritto che a fine del 1988, la più grande holding pubblica poteva vantare utili per 1.263 miliardi. Sembrava che si fosse avverato un miracolo, ma a rovinare la festa vi erano le perdite patrimoniali della siderurgia (3.000 miliardi) che in base ad un articolo dello statuto non vennero contabilizzate.
Ancora, abbiamo trovato scritto che “Romano Prodi ha preso l’Iri con 36mila miliardi di debiti a fine 1982 e l’ha lasciato a fine 1989 con una esposizione di circa 45mila miliardi”. Rispetto all’Iri-uno, anche il clima politico-economico era mutato: non si metteva più in dubbio il verbo privatizzare, ma l’argomento del contendere riguardava le modalità con cui effettuare le privatizzazioni. Sostanzialmente, il bivio di fronte al quale si trovava Romano Prodi conduceva da una parte verso la soluzione public company, dall’altra verso la soluzione nocciolo duro.
La formazione catto-sinistrorsa del Professore non poteva che spingerlo a favorire la soluzione più populista della public company. (Per il dizionario Garzanti della finanza, public company è la “denominazione inglese con cui si indica la società ad azionariato diffuso, con moltissimi soci titolari ciascuno di un numero ridotto di azioni e in cui non vi sono soci di riferimento con notevoli possessi azionari, in grado di esercitare un’influenza dominante, il potere di controllo viene di fatto esercitato dal management. In Italia possono essere considerate public companies le banche popolari, che giuridicamente sono società cooperative”. Trattando il tema delle privatizzazioni, una definizione di “nocciolo duro” la troviamo nel libretto “Il capitalismo ben temperato”, un’antologia di scritti di Romano Prodi. Quindi: “Per nocciolo duro si intende la creazione, sul modello seguito dalla Francia nel processo di privatizzazione di un capitale di comando della nuova impresa, formato da un gruppo d’azionisti previsti appositamente dal governo”).
1994: vince il Polo. E Prodi lascia tra mille polemiche, si avviò la privatizzazione delle banche Credit e Comit. Immediatamente, ci si accorse che erano state seguite delle regole che avevano permesso a Mediobanca “senza nessun ostacolo di poter giocare un ruolo dominante nella campagna d’acquisto delle azioni delle due grandi banche”. A questo punto, Romano Prodi aveva perso la grande battaglia dell’Iri: il presidente della potente holding non era riuscito a imporre la sua volontà (o non aveva voluto?). Il desiderio di “democratizzare” l’economia attraverso le privatizzazioni (con il sistema delle public company) era andato in fumo, era clamorosamente fallito. Il capitolo era già chiuso, ed indietro non si poteva tornare.
Il bonario professore di Scandiano aveva perso. La privatizzazione del Credit può aprire scenari fino ad ora scarsamente considerati. All’inizio di settembre del 1993, Romano Prodi in veste di presidente dell’Iri comunicò che avrebbe immediatamente ceduto le quote di controllo degli istituti di credito Comit e Credit. Pochi giorni dopo, per verificare l’interesse del mercato internazionale Romano Prodi si recò prima a Londra e poi a New York ed infine a Boston. Quando giunse nella Grande Mela, si incontrò con alcuni illustri banchieri fra cui alcuni della banca Goldman Sachs, di cui lo stesso Romano Prodi era stato consulente in veste di senior advisor. In seguito, la banca d’affari statunitense venne scelta dall’Iri come soggetto che doveva collocare sui mercati esteri le azioni del Credit.
Quando questi passaggi vennero evidenziati, Romano Prodi si difese affermando che quando si era riunito il consiglio di amministrazione dell’Iri per affidare l’incarico alla Goldman Sachs lui era uscito. Questo è vero. Ma si potrebbe evidenziare che della banca d’affari americana troviamo traccia all’interno della società di consulenza Ase srl (Analisi studi economici) di Bologna i cui soci erano i coniugi Prodi. Infatti, sembra che nell’esercizio del 1993 della società dei coniugi Prodi risulterebbero pagamenti da Goldman Sachs per consulenze per una cifra che si aggirerebbe attorno ai 900 milioni di lire (il corrispondente di mezzo milione di dollari). Stando alle indiscrezioni investigative-giudiziarie, quando nell’autunno del 1999 la magistratura di Bologna è andata a controllare i conti dell’Ase, si è accorta che non si trattava di consulenze vere e proprie…
Gianpaolo Pelizzaro estratti dalla Prodeide di Antonio Selvatici
“si incontrò con alcuni illustri banchieri fra cui alcuni della banca Goldman Sachs, di cui lo stesso Romano Prodi era stato consulente in veste di senior advisor”
ancora e sempre quella banca malefica, la Goldmann Sachs, origine e causa della maggior parte dei grossi guai dell’Italia e non solo.