“Ridateci i nostri figli!” Intervista a Nunzia Manicardi

Nunzia Manicardi
Ridateci i nostri figli!
Casa editrice Il fiorino

ridateci

Storie di bambini sottratti alle famiglie raccontate dal loro avvocato Francesco Miraglia con i contributi di Paolo Roat, Francesco Miraglia, Camillo Valgimigli, Gian Luca Vignale e Nunzia Manicardi e con il testo delle interrogazioni parlamentari dei senatori Cristiano De Eccher e Giuliana Carlino e del Disegno di legge per l’abolizione del Tribunale dei Minori del sen. Franco Cardiello.


INTERVISTA A NUNZIA MANICARDI, LUNEDI’ 7 GENNAIO 2013 (a cura di Luca Balduzzi)

Dott.ssa Manicardi, lei è autrice di un libro che ha contribuito in maniera determinante a squarciare il silenzio intorno al problema dei minori tolti alle famiglie per disposizione dell’Autorità Giudiziaria e affidati a case-famiglia senza che almeno apparentemente ci fossero gravi e comprovate motivazioni. Si tratta, a quanto lei ha ampiamente documentato, di un problema reale…
Sì, purtroppo è così: quello dei cosiddetti “bambini sottratti alle famiglie” è un problema reale, oggi ben documentato da tutti i mass-media e, per questo, ormai chiarissimo agli occhi dell’opinione pubblica, che se ne dichiara indignata e scandalizzata benché sia impotente a risolverlo. Quando però nel 2007 fui tra i primi, se non la prima, a sollevare il problema con un precedente libro, Casi da pazzi. (Quando Giustizia, Psichiatria e Servizi sociali incrociano la strada del cittadino italiano…), la situazione non era ancora stata percepita; parlarne, soprattutto in una pubblicazione, non era affatto facile. Mancavano i dati ufficiali, mancavano i testimoni che avessero il coraggio di presentarsi con nome e cognome, di rendere pubbliche le loro accuse, le loro denunce… Mi affidai ai casi trattati dall’avv. Francesco Miraglia, che non aveva paura di parlarne, e tra questi emerse con la sua tremenda forza di inaccettabile sofferenza il più tristemente famoso di tutti, quello che è diventato una sorta di “caso emblematico” che li riassume tutti.

A quale caso si sta riferendo, in particolare?
Mi sto riferendo al caso della bambina di Reggio Emilia tolta con un cavillo burocratico ai genitori all’età di due anni e mai più restituita, anzi, a distanza di oltre quattro anni dichiarata perfino “adottabile” nonostante padre e madre, nonché la nonna paterna, abbiano fatto di tutto per riaverla (compresi due “rapimenti” della figlioletta per la quale i due genitori hanno poi dovuto subire anche sei mesi di carcere effettivo seguiti dalla sentenza di condanna). E dire che erano stati definiti più volte ottimi genitori dagli stessi assistenti sociali! E dire che il motivo per cui fu loro sottratta la bimba era stato semplicemente il riferimento allo stato dell’abitazione definita durante un sopralluogo “fatiscente”: cosa tra l’altro non vera, come fu dimostrato subito dopo. Ma quando la “Macchina” si mette in moto non è più possibile fermarla o farla tornare indietro…Tutto questo è atroce e ho voluto dedicare un secondo libro, ancora più incisivo, a questo drammatico problema intitolandolo proprio Ridateci i nostri figli! e corredandolo ancora una volta con i casi giudiziari seguiti dall’avv. Miraglia.

Che cosa non funziona in questa “normale” procedura?
Quello che è assolutamente inaccettabile non è tanto il fatto che i minori vengano tolti alle famiglie, perché questo in caso di abusi e maltrattamenti accertati è non solo opportuno ma ovviamente doveroso e urgentissimo. Qui stiamo però parlando in particolare di quei casi di bambini tolti a madri e padri e nonni e zii amorevoli nei loro confronti, con una motivazione che non significa niente: “incapacità genitoriale” o, peggio ancora, “PES”, che starebbe a dire “sindrome da alienazione parentale”. Sono tutte “etichette” appiccicate a uno dei due genitori (e, per estensione, anche ai loro parenti) nel contesto di solito di un conflitto familiare (quasi sempre una causa di separazione giudiziale). Questi bambini vengono tolti al genitore che l’ha presso di sé con l’intervento della forza pubblica se non si piega spontaneamente o se il bambino stesso non dimostra di volerlo fare; e si tenga presente che non di rado i bambini sono ragazzini con una loro volontà ben precisa e di età di 12, 13, 14 anni! che ciononostante nessun Giudice dei minori, o Giudice tutelare -quindi magistrati istituiti appositamente per loro!- vuole mai ascoltare. Ma tant’è: il minore viene portato via e, si badi bene, non per darlo all’altro genitore ma… ad estranei! È questo che è assolutamente inaccettabile. Non possiamo avere degli “orfani con i genitori in vita”, genitori che amano i propri figli, che si prendono cura di loro e che dall’oggi al domani rimangono privati della loro creatura. Per non parlare, naturalmente, del minore stesso. Perché viene strappato alla madre o al padre, ma anche ai fratelli, ai nonni, agli zii, ai parenti tutti, e, non ultimo, alla scuola!, alla propria classe, ai compagni, ai docenti, agli amici, alle attività scolastiche, sportive, ricreative… Ma è mai possibile che si possa accettare una situazione così? L’affidamento familiare, soprattutto se ad estranei, deve essere limitato ai soli casi di extrema ratio, cioè come “estrema soluzione” quando davvero non se ne possa fare altrimenti e soltanto quando questa necessità improrogabile sia documentata al di là di ogni ragionevole dubbio!

Che cos’è esattamente l’affidamento familiare?
L’affidamento familiare (o temporaneo) è un istituto introdotto dalla legge n.184 del 1983 che ha disciplinato anche l’attuale adozione. L’art. 2 di questa legge dice che “il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia”. Presupposto dell’affidamento è, dunque, un’incapacità, una difficoltà educativa dei genitori che deve però avere il carattere della transitorietà, della temporaneità. È proprio questa temporaneità che distingue l’affidamento dagli altri sistemi di definitiva sostituzione del nucleo familiare. L’affidamento infatti non modifica la situazione familiare del minore: i genitori conservano (salvo provvedimento giudiziale contrario) la potestà ma l’esercizio di questa, così come il dovere di mantenere, istruire, educare il minore secondo il dettato dell’art. 30 della Costituzione compete agli affidatari. L’altro, fondamentale, compito degli affidatari è il dover agevolare i rapporti tra il minore e i suoi genitori al fine di favorirne il rientro nella famiglia d’origine: questa è la grande responsabilità che grava sulla coppia affidataria la quale dovrà impostare tutto il rapporto col bambino in un’ottica di gratuità, senza alcuna prospettiva di eventuale adozione dello stesso. Possiamo dire, dunque, che l’affidamento consiste in una sorta di “adozione allargata”: gli affidatari, infatti, devono prendersi cura non solo del minore ma di tutto il suo nucleo familiare, affinché possa superare il momento di temporanea difficoltà. Da tutto ciò deriva che l’affidamento in sé e per sé potrebbe, e dovrebbe, essere un istituto estremamente vantaggioso per chi ha bisogno di essere tutelato, sia il minore che la propria famiglia. Ma un conto è affiancarsi alla famiglia, quando questa sia latitante o dannosa per il minore, e un conto è sostituirsi ad essa, quando in particolare essa sia un famiglia amorevole e non dannosa, se non talvolta in maniera lieve e facilmente sanabile con un po’ di attenzione e di buona volontà da parte dei Servizi Sociali a ciò preposti. Troppi sono i casi che invece ci mettono in allarme…

Chi sono gli affidatari?
Gli affidatari possono essere chiunque, senza particolari doti o competenze: sia una famiglia, possibilmente con figli minori, che una persona singola o una comunità di tipo familiare: solo in caso di impossibilità a reperire un conveniente affidamento familiare è consentito come estrema risorsa anche il ricovero in un istituto.

Possono essere anche i parenti?
Certamente. Però la recente indagine sull’accoglienza dei minori predisposta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e appena pubblicata ci dimostra senz’ombra di dubbio che Servizi Sociali e Giudici preferiscono sempre più spesso affidare i minori ad estranei che non ai loro parenti. Nell’ultimo decennio, rispetto ai dati precedenti, si vede inequivocabilmente che l’affido extra-parentale è aumentato moltissimo, mentre è calato quello parentale. «Il 55% dei bambini che al 31 dicembre 2010 sono in affidamento familiare -ci dice la ricerca condotta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali- non ha rapporti di parentela con gli affidatari. La restante parte degli affidamenti (45%), pur se sostenuta da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, è realizzata all’interno della cerchia parentale (i nonni oppure gli zii dei bambini e comunque i parenti fino al quarto grado). Oggi si ricorre a questa soluzione interna alla parentela un po’ meno di quanto lo si facesse nel 1999, quando la quota degli affidamenti intra-familiari era del 53%.»
E questo perché? Perché, come si legge ancora dalla stessa relazione ministeriale di spiegazione dei dati raccolti dall’indagine, “si tratta di una variazione che a prima vista non può essere direttamente riconducibile a un possibile venir meno della solidarietà parentale; non ci sono elementi che possano permettere un’interpretazione di questa riduzione, ma si pensa che questa sia in relazione più che altro alla volontà degli operatori e dei Servizi di rendere nel tempo meno scontati gli affidamenti a parenti”. In poche parole: non c’è alcun motivo -se non per “volontà degli operatori e dei Servizi”- perché i bambini nella stragrande maggioranza dei casi vengano dati ad estranei e spostati in un ambiente di vita e di studio completamente differente piuttosto che ai loro parenti che pure li richiedono con tutte le loro forze e che li seguirebbero con amore lasciandoli nella cerchia dei loro affetti, dei loro interessi e delle loro abitudini! È una crudeltà senza senso, che però fa arrivare tanti soldi ad estranei che, oltretutto, non vengono mai controllati nelle voci di spesa: ogni minore in casa-famiglia, non dimentichiamolo, costa mediamente al contribuente 404 euro di denaro pubblico al mese! Poiché i minori in affido sono circa 40mila, si fa presto a capire che giro di soldi possa esserci dietro, a parte i lodevoli e si spera numerosi casi di chi si dedica a questa attività per puro spirito di solidarietà e amore verso il prossimo in difficoltà.

Da chi è predisposto l’affidamento familiare, quello cioè che porta ormai pressoché in maniera univoca dentro una casa-famiglia?
L’affidamento viene predisposto, come ho appena detto, dal Servizio Sociale, ossia dalla struttura amministrativa preposta al servizio di tutela dell’infanzia, ma per diventare esecutivo necessita dell’intervento di un organo giudiziario. Nel caso in cui la famiglia di origine abbia espresso il suo assenso all’affidamento temporaneo del figlio ad un’altra famiglia sarà il Giudice Tutelare ad emettere il decreto con cui l’affidamento diviene esecutivo; nel caso in cui, invece, non ci sia il consenso della famiglia d’origine, sarà il Tribunale per i Minorenni competente a renderlo esecutivo, eventualmente anche limitando o escludendo del tutto la potestà dei genitori, limitatamente per il periodo di durata dell’affidamento stesso, periodo che dovrebbe servire alla famiglia d’origine per un recupero delle condizioni necessarie al ruolo dei genitori. L’affidamento può infatti cessare per il venir meno della situazione di temporanea difficoltà che lo ha determinato o nel caso in cui la prosecuzione rechi pregiudizio al minore oppure ancora per la decorrenza del tempo previsto nel progetto del Servizio Sociale, salvo nel caso in cui l’interesse del minore ne esiga la sua prosecuzione. Una volta cessato l’affidamento il Giudice, valutata la situazione, potrà disporre il reinserimento del minore nella famiglia d’origine oppure un nuovo affidamento presso un’altra famiglia oppure ancora potrà dichiarare il minore in stato di adottabilità, nel caso in cui l’incapacità dei genitori della famiglia di origine assuma il carattere della definitività. Infatti è vero che l’affidamento è un provvedimento temporaneo (motivo per cui non può neppure essere impugnato o dare origine ad un contraddittorio vero e proprio) che non può superare i 2 anni, ma di 2 anni in 2 anni molti bambini non tornano più in famiglia… con l’ulteriore risultato che anche una volta che siano diventati maggiorenni necessitano comunque di una sistemazione in casa-famiglia ancora per parecchi anni non potendo provvedere a se stessi direttamente e neanche potendo appoggiarsi alla propria famiglia, ormai completamente perduta.

Da quanto tempo esiste questo fenomeno delle case-famiglia?
Da poco tempo, ma adesso è esploso con dati davvero significativi. In Italia l’accoglienza temporanea di minori è sempre stata assicurata più che altro dalle forme di collocamento in comunità, in parte anche in virtù della radicata ramificazione territoriale di quelli che un tempo erano gli orfanotrofi. Solo a partire dal 1983 la legge ha esplicitamente riconosciuto e sostenuto una forma di accoglienza diversa da quella assicurata dalle comunità residenziali definendo lo strumento dell’affidamento familiare e individuando quindi nella famiglia, anche nella sua forma mono-personale, il luogo privilegiato dell’accoglienza stessa. Nonostante questa radicale innovazione e convinta affermazione, il numero dei bambini temporaneamente accolti presso le famiglie affidatarie è sempre stato di gran lunga inferiore a quello dei bambini collocati nelle comunità, tanto che nel biennio 1998-1999 il numero dei bambini in affido rappresentava circa il 40% del totale dei bambini fuori dalla loro famiglia di origine.
La rilevazione del Ministero al 31 dicembre 2010 evidenzia invece una radicale inversione di tendenza. Le due forme di accoglienza interessano infatti oggi, a livello nazionale, lo stesso numero di bambini, e più precisamente 14.528 in affidamento e 14.781 in comunità. In particolare, negli ultimi 12 anni, tutto l’incremento nel numero delle accoglienze corrisponde ad un analogo incremento del ricorso all’affidamento familiare. Mentre infatti i collocamenti in comunità sono rimasti nel periodo pressoché pari a quelli registrati nel 1998, il numero degli inserimenti in famiglia è aumentato del 52%.
Vediamo più nel dettaglio: sempre secondo i dati forniti dal Ministero, se si passa a considerare il flusso annuale delle accoglienze nel corso del 2010, risultano entrati/avviati 13.220 casi e conclusi/dimessi 10.389 con un saldo attivo degli entrati/avviati. Tuttavia, anche a questo proposito, bisogna osservare che, se si considerano questi dati in una prospettiva storica (che abbraccia cioè l’andamento dei “fuori famiglia” di origine a tutto il secolo scorso), il fenomeno appare sicuramente in fortissima riduzione. Restringendo però il campo e attualizzando il confronto all’ultimo decennio si nota invece esattamente l’opposto e, cioè, che il fenomeno è in crescita significativa.
In confronto ai dati rilevati nel 1998 e nel 1991 esso è cresciuto infatti sia rispetto all’istantanea di fine anno, sia rispetto all’ammontare complessivo annuo delle accoglienze. Nel primo caso l’incremento è stato del 24%, ovvero da 23.636 a 29.309, pari a un tasso che, in sostanziale costanza della popolazione minorile, passa dal 2,3 per mille al 2,9. Nel secondo caso è aumentato del 20%, ovvero da 33.042 a 39.698, pari a un tasso che passa dal 3,2 per mille al 3,9.
Tutto questo aumento nel numero delle accoglienze è dovuto all’aumento del ricorso all’affidamento familiare: mentre i collocamenti in comunità sono rimasti nel periodo pressoché pari a quelli registrati nel 1998, il numero degli inserimenti in famiglia è, come già detto, aumentato del 52% il che ha portato ad un sostanziale pareggio numerico tra gli accolti nelle strutture residenziali (14.781), che prima erano in netta maggioranza, e gli accolti nelle famiglie affidatarie (14.528) che, viceversa, erano nettamente in minoranza.