di Massimo Ragnedda – Docente universitario
Prendo spunto da un recento concorso al quale ho partecipato (gli atti del concorso non sono stati ancora pubblicati e quindi non ne conosco l’esito), per iniziare a parlare del contestabile processo di reclutamento delle Università italiane.
L’Università di Sassari ha bandito 29 posti da RTD (Ricercatore a Tempo determinato) ognuno dei quali con uno specifico oggetto di ricerca. L’art. 24, comma 2 A della Legge 240/2010 prevede che sia possibile inserire nei bandi un profilo “esclusivamente tramite l’indicazione di uno o più settori scientifico-disciplinari” (SSD) e non inserendo un progetto di ricerca specifico (come invece si fa per gli assegni di ricerca).
Dunque i bandi dovrebbero essere illegittimi. Dico dovrebbero perché in realtà, in una interrogazione parlamente, il governo ha fatto sapere che non è proibito l’inserimento di un progetto nel bando. Ma si tratta di una interpretazione che non fa giurisprudenza: roba da giuristi, insomma. Ma, per un attimo, sorvoliamo sulla cosa, perché non è di questo che voglio parlare, ma di come e quanto sia facile, volendo, manipolare un concorso. Ognuno di questi 29 posti è valutato da una specifica commissione composta da 3 docenti di ruolo dello stesso SSD oggetto di concorso. Ogni commissione ha stabilito dei propri criteri con i quali valutare i candidati, come se, permettemi la metafora, per ogni incontro di boxe i commissari scegliessero, di volta in volta, regole diverse.
Rimanendo nella metafora della boxe e a voler essere maliziosi si potrebbe avanzare il sospetto che se il candidato che si vuole far vincere (magari uno dei tanti che in questi anni ha accettato di lavorare gratis all’Università o facendo fotocopie al professore di turno, secondo le più perverse usanze della cooptazione) ha un bel diretto si danno 4 punti al diretto, se ha un gancio così così si danno 2 punti e se invece è debole con il montante allora si da un solo punto per questo. Fuor di metafora, il dubbio che ogni commissione calibri questi criteri sul profilo del candidato prescelto è più che un semplice sospetto. Ovviamente ci sono dei criteri nazionali ai quali ogni commissione deve attenersi, anche se la legge, però, non specifica il peso che ad ogni singolo criterio deve essere dato. Mi spiego meglio.
La legge nazionale dice: devi valutare il gancio, il diretto e il montante, ma non dice quanto questi devono pesare sul risultato finale. Così, ritornando ai concorsi di Sassari anche se l’esempio potrebbe essere esteso a livello nazionale, le commissioni hanno seguito le indicazioni della legge (“Criteri e parametri per la valutazione preliminare dei candidati di procedure pubbliche di selezione dei destinatari di contratti di cui all’art. 24, comma 2, lettera c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240”), ma poi sono state libere di scegliere il peso da dare ad ogni singolo aspetto. La legge, che per comodità chiamerò la 240, dice che devono essere valutati i titoli (Dottorato di ricerca di ricerca; eventuale attività didattica a livello universitario in Italia o all’Estero ecc..) e la produzione scientifica (ovvero le pubblicazioni), ma non dice il peso che ognuno di questi titoli e pubblicazioni deve avere. Così, all’interno dello stesso bando, abbiamo commissioni che mettono in palio 50 punti (suddivisi tra i vari titoli e pubblicazioni) e commissioni che ne mettono in palio 100 ed altre ancora che ne mettono in palio 60, una addirittura 49 punti.
Di questi solo 2 per “svolgimento di attività didattica formalizzata a livello universitario in Italia o all’estero”, ovvero il 3% del totale. La commissione ha dunque arbitrariamente deciso che avere esperienza didattica in Italia o all’estero è quasi irrilevante per, tra le altre cose, insegnare. Aspetto, per quanto non illegittimo, molto discutibile. Per fare un esempio con il sistema di reclutamento anglosassone: nel concorso che ho vinto alla Northumbria University ho dovuto sostenere, tra le altre prove, anche una lezione di fronte agli studenti (visto che sono anche loro i fruitori del servizio che presto all’Università) e sono stato da loro giudicato, non per il contenuto ma per la chiarezza espositiva. Il loro giudizio ha concorso a formare la mia valutazione finale.
La commissione ha altresì deciso di assegnare 4 punti (il doppio rispetto all’attività didattica) per lo “svolgimento di attività pertinente il progetto di ricerca”. La cosa interessante è che la legge 240 non contempla questo titolo. Per tornare alla metafora della boxe, è un po come se i commissari scegliessero di inserire oltre al gancio, al diretto e al montante (previsti dalla legge) anche lo schiaffo. Ma ora il punto più interessante. Per le pubblicazioni la commissione ha deciso di mettere in palio 30 punti (metà del totale). Sino ad un massimo di 10 punti per “originalità, innovatività e importanza di ciascuna pubblicazione scientifica” senza distinguere tra articoli internazionali o quaderni di facoltà, tra monografie o capitoli in curatele.
Alcune commissioni, sempre dello stesso bando, hanno invece preferito (secondo me giustamente) dare il giusto peso ad ogni singola pubblicazione. Così, ad esempio, il concorso 11/D2 ha dato sino a punti 14 punti per “Pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali”, sino a 20 punti per le “Monografie” e sino a 6 punti per “Interventi a convegni con pubblicazione degli atti”. Questo perché non tutte le pubblicazioni sono uguali, anche se poi la commissione giustamente valuta quanto, nello specifico, dare ad ogni singola pubblicazione. Ma la suddivisione tra monografie, articoli e capitoli rispecchia dei criteri un po’ più oggettivi.
Tralascio gli altri aspetti (controversi ma non illegittimi) e mi soffermo sull’ultimo aspetto inserito nei criteri di valutazione, ovvero: “congruenza con l’oggetto specifico del progetto di ricerca”. Per questo aspetto non contemplato dalla legge, si da un massimo di 8 punti. Quindi in totale si danno sino a 12 punti (4+8) su 60 (ovvero ben il 20% del totale) per due cose non previste dalla legge e, dunque, tecnicamente illegittime. Cosa questa che, tra l’altro, cozza con i “principi enunciati dalla Carta Europea dei Ricercatori” ai quale la Legge all’art. 2. si richiama esplicitamente. Tra questi principi, come il CPU ha ricordato, la Carta inserisce l’esigenza di evitare bandi che contengano progetti tanto specifici da restringere eccessivamente il numero dei possibili partecipanti al concorso.
Ora che fare? Si tenga presente che sto scrivendo prima che gli atti vengano pubblicati e dunque non conosco ufficialmente il nome del vincitore e il punteggio finale assegnato ad ogni candidato (potrei, paradossalmente, anche essere io). Il concorso in oggetto, così mi assicurano i miei amici avvocati, sarebbe illegittimo e un eventuale ricorso al TAR lo annullerebbe quasi sicuramente. Vi è però da precisare che un ricorso al TAR costa tra i 3000 e 5000 euro, anche se è nato un comitato, il Secs Team, che aiuta nella raccolta fondi e le cui iniziative hanno portato all’annullamento negli ultimi mesi “di un concorso da ricercatore in economia politica presso l’Università del Piemonte Orientale e al differimento della
nomina del vincitore di un concorso in politica economica presso l’Università dell’Insubria”.
Ne vale la pena la pena allora? Vediamo cosa potrebbe succedere, perché questo ci aiuta a capire perché il numero dei ricorsi è così basso e i candidati spesso tendano ad “accettare” certe cose. Mettiamo che il TAR accolga il ricorso e annulli così il concorso (non può infatti entrare nel merito e dire che Tizio è più bravo di Caio, ma può evidenziare eventuali vizi di forma o irregolarità nella procedura di valutazione) e dunque il concorso deve essere rifatto (spesso con la stessa commissione). Ora, vien da sé che, data l’arbitrarietà della commissione, le possibilità che vinca (a prescindere dai titoli) il promotore del ricorso, sono scarse.
E poi, anche qualora si vincesse un ricorso al TAR e poi si vincesse il concorso, si tratterebbe pur sempre di un posto triennale difficilmente rinnovabile senza la volontà di tutto il Dipartimento (promuovere un ricorso significa farsi nemici e, dunque, rinunciare alla carriera). E su questo, ahimè, si gioca. Insomma sarebbe una vittoria di Pirro perché ci si troverebbe dopo 3 anni disoccupato. Questa è una delle tante storture dell’accademia italiana che la riforma Gelmini ha acuito piuttosto che eliminare, aumentando il precariato da una parte e il potere dei baroni dall’altra. Più aumentano i precari, più aumenta il potere dei baroni visto che è da loro che dipende il futuro dei precari, cosa che alimenta il nepotismo, male incurabile delle Università italiane.