27 nov . Sarà che i draghi eruttano fiamme, ma la mossa del presidente della BCE di sostenere in maniera illimitata i titoli di stato a breve dei paesi che sottopongano le proprie finanze pubbliche a un controllo europeo ricorda quel volontario della protezione civile che da un lato collabora allo spegnimento dell’incendio, mentre dall’altro attizza altri focolai.
Invocato da molti come misura necessaria per calmare la situazione, l’intervento della BCE non è certo risolutivo, e per come è congeniato, al pari del volontario spegne un focolaio per attizzarne un altro.
I problemi europei non derivano infatti dalla dissipatezza fiscale dei paesi periferici, ma sono conseguenza della perdita di competitività di questi paesi, del mercantilismo tedesco e dallo scoppio delle bolle immobiliari alimentate dai flussi di capitali dai paesi più forti verso alcuni periferici, tutti processi favoriti dall’euro.
La crisi si è poi scaricata sulle finanze pubbliche. Il mancato tempestivo e risoluto intervento della BCE a sostenerle ha fatto sì che i focolai si trasformassero in un devastante incendio.
In aggiunta, le misure di austerità imposte dall’Europa ai paesi in crisi, mentre erano inutili per assalire le cause di fondo della crisi, hanno peggiorato con la recessione i problemi di finanza pubblica. Il crollo della domanda interna ed europea ha ulteriormente aggravato la situazione delle imprese, mentre il costo del denaro – che segue quello dei titoli pubblici – si è fatto esorbitante per le aziende della periferia, svantaggiandole ulteriormente rispetto a quelle tedesche.
La mossa di Draghi rivela quello che gli economisti eterodossi (e quelli della “Modern Monetary Theory”) hanno sempre sostenuto: i tassi li fa la BCE e non il mercato. E allora si capisce come gran parte dell’incendio di questi due anni sia stato appiccato dalla BCE medesima, ubbidiente al diktat dell’elite europea di spazzar via attraverso una crisi fiscale welfare state e sindacati – nella periferia in primo luogo, ma come lezione ai sindacati tedeschi in secondo. Come mi ha sottolineato Alberto Bagnai – ma questo è Keynes naturalmente – le unioni monetarie nascono col precipuo scopo di costringere i paesi membri (e le loro classi lavoratrici) a una devastante concorrenza deflazionista. L’economista conservatore, il “Nobel” Mundell l’ha chiaramente detto.
Dei tre focolai individuati – quello creato dallo stesso euro, quello creato dal mancato intervento della BCE per due lunghi anni, e quello dell’austerity – la mossa di Draghi attenua il secondo, ma al prezzo di alimentare il terzo, e senza far nulla nei confronti del primo.
Siccome a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia, la mossa di Draghi va interpretata come frutto della paura che l’incendio si portasse via il presupposto medesimo del discorso, cioè l’euro, e che dunque i popoli dei paesi periferici potessero di dire basta a questa lenta agonia. Si tiene dunque in vita il paziente, ma solo quel tanto perché dosi rafforzate dell’altra cura, l’austerity, facciano effetto nell’annichilirne ogni volontà di reazione. (Non si dimentichi quando Draghi diede per morto lo stato sociale europeo – è penoso che Draghi sia stato poi accostato alla memoria di Federico Caffè).
Altre strade erano possibili? Come abbiano sempre sostenuto, l’intervento risoluto della BCE dovrebbe essere accompagnato dall’unica condizionalità della stabilizzazione dei rapporti fra debito pubblico e Pil. La plausibilità di questo obiettivo rassicurerebbe i mercati, mentre lascerebbe spazio a politiche fiscali espansive. Senza infatti un rilancio della domanda aggregata non ci sarà mai ripresa, e il rafforzamento dell’austerity va in direzione opposta. Questo rilancio dovrebbe essere più forti in Germania che dovrebbe fungere da locomotiva europea, anche sostenendo i salari mortificati in molti settori dalle riforme della SPD. Poiché difficilmente tutto ciò basterebbe a ricomporre gli squilibri commerciali infra-europei, come affermato dal primo rapporto europeo sulla moneta unica Mac Dougall (1977) si dovrebbe rapidamente anche andare verso un crescente bilancio pubblico europeo con una forte componente redistributiva centro-periferia, mentre il ruolo dei bilanci nazionali si ridurrebbe.
Questa dell’Europa Federale è una prospettiva che però tanto somiglia a un’Europa divisa fra sussidiati e sussidiatori, inaccettabile per entrambi. Soprattutto, la dura realtà è che l’Europa va in un’altra direzione, l’euro è nato per quello. Forse gli spread diminuiranno un po’, ma l’agonia dell’occupazione e del reddito non migliorerà, e a questo la sinistra dovrebbe guardare.
di Sergio Cesaratto*