Articolo 26.07.2007 (Solange Manfredi)- Premessa. La sentenza 16751/2006 delle sezioni unite: Con sentenza 2978/05 la Banca D’Italia veniva condannata a restituire ad un cittadino (l’attore) la somma di euro 87,00 a titolo di risarcimento del danno derivante dalla sottrazione del reddito da signoraggio. In tale sentenza il giudice di pace di Lecce sottolineava come la Banca d’Italia nel periodo 1996-2003 si fosse appropriata indebitamente di una somma pari a 5 miliardi di euro, e di come tale somma corrispondesse alla media di 87 euro per ogni cittadino residente in Italia al 31.12.2003
La Banca d’Italia, avverso detta sentenza, ricorreva in Cassazione.
Il 21 luglio 2006 con la sentenza n. 16751 le SS.UU. civile della Cassazione accoglievano il ricorso di Banca d’Italia sostenendo che: “la pretesa del cittadino nei confronti dell’istituto di emissione esula dall’ambito della giurisdizione, sia essa quella del giudice ordinario, sia del giudice amministrativo, in quanto al giudice non compete sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane, tra le quali sono indiscutibilmente comprese quelle di politica monetaria, di adesione a trattati internazionali e di partecipazione ad organismi sovranazionali: funzioni in rapporto alle quali non è dato configurare una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui esse si manifestano assumano o non assumano un determinato contenuto”.
Per comprendere tali sentenze, ed il problema da esse sollevato, si devono preliminarmente esaminare tre questioni:
- cosa si intenda per signoraggio;
- la natura giuridica e il funzionamento della Banca d’Italia;
- la natura e le funzioni della BCE;
Questione 1: Il signoraggio
L’espressione risale ai secoli scorsi quando la circolazione era costituita soprattutto da monete in metalli preziosi (oro e argento). Ogni cittadino poteva chiedere al suo sovrano di coniargli monete con i lingotti d’oro e argento che portava alla zecca. Il sovrano, ponendo la sua effigie sulla moneta, ne garantiva il valore (dato dalla quantità e dalla purezza del metallo in essa contenuto). In cambio di questa garanzia tratteneva per sé una certa quantità di metallo: l’esercizio di questo potere sovrano venne chiamata signoraggio.
Il signoraggio, dunque, indicava (e in parte indica tutt’ora) il guadagno dello Stato nell’emettere la valuta.
Se in un primo tempo il valore della moneta era dato dalla quantità e dalla purezza in essa contenuto, con l’avvento della carta moneta il valore del biglietto veniva garantito dalla riserva aurea dello Stato, ovvero i biglietti erano convertibili in oro.
Il 22 Luglio 1944, gli stati del mondo, a Bretton Woods costituirono il Fondo Monetario Internazionale e decisero un nuovo sistema monetario: tutte le monete erano convertibili in dollari, ma solo il dollaro era convertibile in oro. In altre parole, si era creata una sorta di riserva aurea indiretta.
Tutti gli Stati del mondo costituirono, quindi, riserve in dollari per garantire la loro moneta.
Quali furono le conseguenze?
Per garantire l’equilibrio del sistema, e la richiesta di dollari avanzata dai paesi che dovevano garantire la loro moneta, gli Stati Uniti stamparono più dollari di quelli necessari alla sua, precedente, circolazione interna.
Nel 1970 l’OPEC, cioè il cartello dei produttori di petrolio, non solo aumentò il prezzo del greggio, ma pretese che questo fosse pagato in oro e non più in dollari.
Gli stati che avevano riserve in dollari, cercarono di cambiarli in oro, oro che si sarebbe dovuto trovare nei forzieri di Fort Knox in USA. Purtroppo, solo in quel momento, si scopri che l’oro non era sufficiente e non copriva il valore dei dollari circolanti in tutto il mondo.
Le riserve auree nel mondo (valutate al 1975) non superavano le 200.000 tonnellate, mentre per coprire tutte le monete circolanti ne sarebbero occorse 75.000.000. Il che vuol dire che ogni moneta aveva una copertura del suo valore pari allo 0,3 % in oro.
Il 15 agosto 1971, Nixon annunciava a Camp David, con decisione unilaterale, di sospendere la convertibilità del dollaro in oro.
Da allora i paesi continuano a stampare moneta cartacea priva di qualsiasi garanzia.
In altre parole: la riserva aurea non esisteva più, e quindi la moneta diventava un valore unicamente virtuale, e non ancorato all’oro, come era avvenuto per secoli.
Questione due: La Banca d’Italia. Natura giuridica e funzionamento.
In Italia, dal 1936 grazie alla Legge bancaria (R.D.L. 375 del 12.03.1936 convertito nella Legge 441 del 07.03.1938) e al successivo “Statuto” approvato con R.D. 1067 del 11.06.36, la Banca D’Italia, trasformata in istituto di diritto pubblico, esercita in regime di monopolio la funzione di emissione della carta moneta (con esclusione delle monete metalliche la cui competenza esclusiva è riservata al Tesoro dello Stato).
Sin qui parrebbe che il potere sovrano di emettere moneta, essendo stato delegato ad un istituto di diritto pubblico, continui ad appartenere allo Stato e che sempre allo Stato vada il c.d. reddito da signoraggio. Ma non è così.
Per vedere come questo non corrisponda al vero è nenessario andare ad analizzare lo statuto della Banca D’Italia, il suo funzionamento e le sue “anomalie”:
I° Anomalia
I principali compiti, e funzioni, che la legge del 1936 affida alla Banca d’Italia sono:
- Istituto di emissione. (Anche se, come vedremo dopo, dal 1° gennaio 2002, con il Trattato di Mastricht, l’emissione delle banconote in euro aventi corso legale in Europa è compito della Banca centrale europea);
- Gestione della tesoreria provinciale dello Stato;
- Funzione di vigilanza sul sistema creditizio
L’organizzazione interna ricalca sostanzialmente quella che è propria di una società per azioni. Così vi troviamo:
- un capitale sociale, suddiviso in quote detenute di partecipanti;
- un consiglio di amministrazione;
- un collegio sindacale;
- gli Organi Amministrativi e di Controllo, come avviene nelle società per azioni, sono nominati dall’assemblea Generale dei “partecipanti”: in particolare il Consiglio Superiore, che poi provvede a nominare tra i propri componenti il Comitato, il Governatore, il direttore Generale e i due vice Direttori Generali1;
- I portatori delle quote si riuniscono annualmente in assemblea generale ordinaria.
Inoltre i partecipanti, come gli azionisti di una società per azioni, hanno diritto;
- al rendiconto annuale della gestione sulla base del bilancio (da sottoporsi all’approvazione dell’assemblea);
- alla partecipazione all’utile della gestione;
- ai frutti derivanti dall’investimento delle riserve del patrimonio netto.
Questa analisi non ci porta ancora a privare la Banca D’Italia della qualifica di ente pubblico. Infatti, come ribadito anche dalla Cassazione, un ente si definisce pubblico quando, pur essendo privatizzato, ha un fine pubblico e un sistema di controlli pubblici. Ma la Banca d’Italia risponde a tali requisiti?
Sul fine pubblico nulla questio, trattandosi di un istituto di emissione; il problema sono i controlli da parte dello Stato che nella sostanza non esistono. Questo perché gli organi amministrativi e di controllo della Banca d’Italia sono nominati dall’Assemblea Generale dei partecipanti (che sono al 95% dei privati). Il Governo può solo approvare la nomina, o la revoca, di alcune cariche, ma l’approvazione da parte del Governo non influisce minimamente sulla validità della nomina. In soldoni è come se non esistesse.
In conclusione, la Banca d’Italia è un ente privato, strutturato come società per azioni, a cui è affidata, in regime di monopolio, la funzione statale di emissione di carta moneta, senza controlli da parte dello Stato.
II° Anomalia
La Banca D’Italia abbiamo detto è per il 95% in mano a privati. Essi sono:
Gruppo Intesa (27,2%), | BNL (2,83%) |
Gruppo San Paolo (17,23%) | Monte dei Paschi di Siena (2,50%) |
Gruppo Capitalia (11,15%) | Gruppo La Fondiaria (2%) |
Gruppo Unicredito (10,97%) | Gruppo Premafin (2%) |
Assicurazioni Generali (6,33%) | Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%) |
INPS (5%) | RAS (1,33%) |
Banca Carige (3,96%) | privati (5,65%) |
Dall’analisi dei soci ci rendiamo conto che solo il 5% del capitale è dell’INPS, ovvero di una società pubblica2. Dunque la banca D’Italia è per il 95% in mano a banche private. Ma qui risulta evidente la seconda forte anomalia. Infatti abbiamo detto che con la legge bancaria del 1936 a Banca D’Italia è stato demandato il compito di vigilanza sulle altre banche. Ora, le banche sono proprietarie della Banca che dovrebbe su di loro vigilare ed, attraverso i consigli di amministrazione, nominano Governatori e Direttori; ciò vuol dire, in altre parole, che i controllati controllano i controllori, e non vicerversa.
III° Anomalia
Riguarda gli art. 543 e 564 del Titolo IV (BILANCI, UTILI, SPESE E PERDITE, RISERVE) Vediamo perché:
In base all’art. 54 la quota di utili da assegnare allo Stato corrisponde circa al 50% dell’Utile di Esercizio del Bilancio Annuale, dedotto il 40% accantonato a riserve e il 10 % del capitale sociale attribuiti ai partecipanti.
L’art. 56, inoltre, prevede che una quota, a valere sul fruttato delle riserve medesime, sia distribuita ai partecipanti al capitale sociale (come annualmente deliberato dall’assemblea).
Analizziamo nei fatti le conseguenze di queste norme. Come sottolinea la CTU redatta dal perito nella sentenza n. 2978/05 del giudice di pace di Lecce, nella causa sul signoraggio, l’accantonamento dei frutti delle riserve (e l’assegnazione di parte di essi ai partecipanti) determina una incremento (e una decurtazione) delle riserve stesse quale partita negativa del conto economico e, pertanto, il risultato di esercizio è rappresentato in bilancio al netto di tale posta.
Gli accantonamenti a riserve generano patrimonio e frutti ad esclusivo vantaggio dei partecipanti al capitale sociale dell’Istituto e, per converso, rappresentano un reddito sottratto alla competenza dello Stato.
Inoltre, la quota di riserve attribuita annualmente ai partecipanti (quota stabilita in assoluta autonomia dal Consiglio di Amministrazione della Banca d’Italia), ai sensi dell’art. 56 dello Statuto, è sovente sensibilmente superiore alla quota di utile assegnata allo Stato (ad esempio nel 2003 al netto degli accantonamenti a riserve, sia stato corrisposto un dividendo per ogni quota di partecipazione unitaria pari a circa il 300% del valore della stessa. Dividenti andati tutti a privati (le banche) e che formano il debito pubblico).
Insomma è evidente come la Banca D’Italia assolva ai fini che dovrebbero essere di natura pubblica in piena autonomia e indipendenza, ritraendone utili e frutti che divide tra i “partecipanti” privati.
Quindi, ricapitoliamo:
- la Banca D’Italia è una società privata, detenuta per il 95% da privati;
- gli Organi Amministrativi e di Controllo della Banca d’Italia, come avviene nelle società per azioni, sono nominati dall’assemblea Generale dei “partecipanti” (cui il 95% sono privati): in particolare il Consiglio Superiore, che poi provvede a nominare tra i propri componenti il Comitato, il Governatore, il direttore Generale e i due vice Direttori Generali;
- con la legge 82 del 07.02.1992 varata dal ministro del Tesoro Guido Carli (già governatore della Banca d’Italia), è stata attribuita alla Banca d’Italia la facoltà di variare il tasso ufficiale di sconto senza doverlo più concordare con il Tesoro. Ovvero autonomamente un gruppo di banche private decide per lo Stato italiano il costo del denaro.
- Annualmente, il Consiglio di Amministrazione, autonomamente eletto (dai soci privati), stabilisce quote di riserva variabili che, spesso, producono una quota di utili superiore alla quota di utili che viene data allo Stato
- tali utili (risultato degli interessi sul prestito) la Banca d’Italia li distribuisce tra i suoi soci che sono al 95% privati;
- gli utili distribuiti alle banche private costituiscono un debito contratto dallo Stato e vanno ad incrementare il debito pubblico.
Stante la situazione appena descritta appare chiaro che la sovranità monetaria è esercitata da una società a capitale privato con scopo di lucro che decide in piena autonomia il costo del denaro5.
Da questi elementi può affermarsi che lo Stato, da tempo, ha ceduto la propria sovranità monetaria in favore di un ente privato (non certo pubblico), ovvero la Banca d’Italia.
Questione tre: La BCE. Natura e funzioni.
C’è da domandarsi se qualcosa è cambiato con l’ingresso dell’Italia in Europa.
Ad un analisi approfondita, però, si scopre che non è cambiato quasi nulla. Le anomalie sono addirittura maggiori. Vediamole.
I° Anomalia
Il 7 febbraio 1992 Giulio Andreotti come Presidente del Consiglio assieme al Ministro degli Esteri Gianni de Michelis e il Ministro del Tesoro Guido Carli (già governatore di Banca d’Italia) firmano il Trattato di Maastricht6.
Il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e la Banca centrale europea (BCE) sono stati istituiti dal Trattato di Maastricht.
Il SEBC è un’organizzazione, formata dalla BCE e dalle banche centrali nazionali dei paesi dell’Unione europea, che ha il compito di emettere la moneta unica (euro) e di gestire la politica monetaria comune con l’obiettivo fondamentale di mantenere la stabilità dei prezzi.
La BCE, proprietà delle banche centrali, le quali ne sono azioniste, è un soggetto privato con sede a Francoforte.
Inoltre, ex art. 107 del Trattato di Mastricht, la BCE è esplicitamente sottratta ad ogni controllo e governo democratico da parte degli organi dell’Unione Europea. Tale previsione fa si che la BCE sia una sorta di soggetto sovranazionale ed extraterritoriale.
II° Anomalia
Le banche centrali nazionali sono le sole sottoscrittrici delle quote del suo capitale.
Vediamo allora chi sono i soci della BCE
I SOCI DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA (BCE)
Banca Nazionale del Belgio (2,83%) | Banca centrale del Lussemburgo (0,17%) |
Banca Nazionale della Danimarca (1,72%) | Banca d’Olanda (4,43%) |
Banca Nazionale della Germania (23,40%) | Banca nazionale d’Austria (2,30%) |
Banca della Grecia (2,16%) | Banca del Portogallo (2,01%) |
Banca della Spagna (8,78%) | Banca di Finlandia (1,43%) |
Banca della Francia (16,52%) | Banca Centrale di Svezia (2,66%) |
Banca Centrale d’Irlanda (1,03%) | Banca d’Inghilterra (15,98%) |
Banca d’Italia (14,57%) |
Come si può notare dallo schema vi sono
, tra i sottoscrittori della BCE, tre stati (Svezia, Danimarca ed Inghilterra) che non hanno adottato come moneta l’euro, ma che, in virtù delle loro quote, possono influire sulla politica monetaria dei paesi dell’euro.
Anche in questo caso, dalle anomalie ora sottolineate si evince come, nella sostanza, l’Italia abbia ceduto la sua sovranità monetaria ad un soggetto sovranazionale ed extraterritoriale sottratto ad ogni controllo.
Tale situazione anomala è stata oggetto, da parte di diversi cittadini, di azioni civili e penali contro la Banca d’Italia. Alcune cause sono ancora in corso, altre si sono già concluse. In un caso, un giudice di pace di Lecce, ha dato ragione ad un cittadino, che aveva denunciato questo stato di cose, condannando la Banca d’Italia a restituirgli il c.d. “ reddito da signoraggio” (sentenza n. 2978/05 emessa a Lecce). La sentenza afferma che la Banca d’Italia (che ricordiamo è al 95% in mano a privati) si è appropriata indebitamente di una somma enorme, pari a 5 miliardi di euro solo tra gli anni 1996-2003 sotto la voce “reddito da signoraggio”.
La Banca d’Italia, avverso tale sentenza, ha fatto ricorso in Cassazione. Il 21 luglio 2006 con la sentenza n. 16751 le SS.UU. civile della Cassazione hanno accolto il ricorso di Banca d’Italia sostenendo che: “la pretesa del cittadino nei confronti dell’istituto di emissione esula dall’ambito della giurisdizione, sia essa quella del giudice ordinario, sia del giudice amministrativo, in quanto al giudice non compete sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane, tra le quali sono indiscutibilmente comprese quelle di politica monetaria, di adesione a trattati internazionali e di partecipazione ad organismi sovranazionali: funzioni in rapporto alle quali non è dato configurare una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui esse si manifestano assumano o non assumano un determinato contenuto”.
In sostanza la Corte di Cassazione ha detto che il problema della politica monetaria non è sindacabile dal giudice, e quindi, quand’anche da tale politica il cittadino riceva un danno, non ha tutela giurisdizionale.
A questo punto allora dobbiamo porci queste domande.
1) E’ possibile che non esista un interesse protetto del cittadino a che gli atti compiuti dallo Stato assumano o non assumano un determinato contenuto?
2) E se lo Stato, nell’esplicare le proprie funzioni sovrane, viola un diritto dei cittadini arrecando un danno alla popolazione, è possibile che il cittadino non possa far nulla, neanche adire gli organi giudiziari?
Per rispondere alla domanda dobbiamo analizzare il problema alla luce dei principi posti dalla Costituzione.
La Costituzione Italiana. Principi fondamentali
Art. 1.
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”
Cosa significa esattamente? Cosa si intende per “la sovranità appartiene al popolo” e come viene, questa, esercitata costituzionalmente dal popolo?
I mezzi con cui può essere esercitato tale potere sono diversi.
Uno di questi è sicuramente l’elezione dei membri del Parlamento.
Lo Stato è il rappresentante del popolo e tale rappresentanza è regolamentata dalla Costituzione. La Costituzione introduce una vera e propria rappresentanza diretta del popolo da parte dello Stato, nel senso che lo Stato-soggetto agisce non soltanto per conto del popolo, ma anche nel suo nome (Vezio Crisafulli). La sovranità popolare implica che tutte le funzioni delegate allo Stato, tramite lo strumento costituzionale dell’elezione, devono essere esercitate solo ed esclusivamente nell’interesse del popolo. Infatti, la rappresentatività, per acquistare significato, deve essere connessa all’interesse generale [Cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale, X ed., Milano, 2000, p. 219].
Lo Stato, in qualità di rappresentante, gestisce tale sovranità compiendo “una serie di operazioni per la realizzazione di uno scopo altrui (…)”[S. PUGLIATTI, Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza (1929), ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 166].
Ricordato questo, la domanda da porci è: cosa succede se lo Stato esercita le sue funzioni delegate non nell’interesse della generalità, ma per interessi contingenti di una parte? Esistono limiti a questa rappresentatività? E se si, da chi sono garantiti?
I limiti giuridici di tale rappresentatività sono previsti dalla Costituzione e gli organi di garanzia a ciò preposti, sempre dalla Costituzione, sono innanzitutto il Presidente della Repubblica e in ultima istanza la Corte Costituzionale. E’ a questi organi che il cittadino può, e deve, rivolgersi nel caso in cui i limiti costituzionali di rappresentatività vengano illecitamente esercitati da parte dello Stato.
Se così stanno le cose, la domanda ora da porci è: nel caso di Banca d’Italia e BCE, è stata illecitamente, ovvero incostituzionalmente, esercitata la funzione sovrana di politica monetaria? La risposta è senz’altro positiva.
I diritti fondamentali violati sono due: l’art. 1 e l’art. 11 della Costituzione.
Per quanto riguarda l’art. 1 la violazione consiste nel fatto che lo Stato, delegato dal popolo ad esercitare la funzione sovrana di politica monetaria, l’ha ceduta a soggetto diverso dallo Stato: prima alla Banca D’Italia (di proprietà al 95% di privati), quindi alla BCE (soggetto privato, soprannazionale ed extraterritoriale). In tale ultimo caso, poi, lo Stato ha violato anche l’art. 11 della Costituzione che recita:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L’art. 11 della costituzione consente limitazioni (non già cessioni) della sovranità nazionale solo in favore di altri Stati. Ma la BCE non è uno Stato, né organo di altri Stati.
Inoltre, la sovranità monetaria non è stata ceduta a condizioni di parità (le quote di partecipazione alla BCE non sono paritarie), vi fa parte anche la Banca d’Inghilterra che non fa parte dell’euro e partecipa alle decisioni di politica monetaria del nostro Stato (nonché agli altissimi utili derivanti dal reddito da signoraggio) senza che lo Stato italiano possa in alcun modo interferire nella politica monetaria interna. C’è insomma una palese disparità di trattamento, per giunta a favore di uno stato sovrano estraneo all’area dell’Euro e che, proprio per avere una moneta diversa, potenzialmente può avere un conflitto di interessi con la politica monetaria europea.
Ed ancora. Tale limitazione (non cessione) può essere fatta ai soli fini di assicurare “la pace e la giustizia tra le Nazioni”. I fini della BCE non sono quelli di assicurare pace e giustizia fra le nazioni, ma quello di stabilire una politica monetaria.
In conclusione: se i principi costituzionali da noi citati sono stati intesi correttamente, e se la Costituzione ha ancora un valore, si deve concludere che la cessione dell’esercizio della sovranità monetaria alla Banca d’Italia, alla BCE o a qualsiasi soggetto diverso dallo Stato, viola l’art. 1 della Costituzione e non si giustifica con l’art. 11 della Costituzione. Tutto ciò porta alla logica conseguenza che tutte le leggi, decreti, atti o quant’altro in tal senso sono incostituzionali e per questo inefficaci ex tunc.
Si ritiene, pertanto che, nel caso in esame, e per le violazioni appena citate, avrebbe dovuto essere investita anche la Corte Costituzionale oltre alla Corte di Cassazione.
_______________________
1 Il Governo, come stabilisce la legge, può solo approvare la nomina, o la revoca, di alcune cariche, ma l’approvazione da parte del Governo non influisce minimamente sulla validità della nomina, al massimo può influire sull’efficacia.
2 Preme rilevare a questo punto che sino a pochi mesi fa l’art. 3 dello Statuto proibiva la cessione a privati di quote azionarie della BdI e prescriveva che fosse, per la maggioranza, in mano pubblica. Ora, grazie anche alle varie cause promosse da diversi cittadini contro Banca D’Italia con modalità prettamente italiana si è modificato l’articolo 3 dello Statuto cancellato quella fastidiosa frase che imponeva che la maggioranza fosse in mano pubblica
3 ART. 54
Ogni anno devono essere fatti il bilancio e l’inventario dell’attivo e del passivo dell’Istituto. Deve essere pure fatto il conto dimostrativo dei profitti, delle spese e delle perdite dell’esercizio annuale. I profitti sono quelli conseguiti durante l’anno tanto dalle operazioni ordinarie quanto da quelle straordinarie e dai ricuperi sulle sofferenze ammortizzate. Le spese comprendono quelle di ordinaria amministrazione, quelle per rifornimento della riserva metallica, quelle per l’emissione dei biglietti al portatore e simili, le tasse e gli altri oneri prescritti dalle leggi, e le somme eventualmente erogate a scopo di beneficenza o per contributi a opere di interesse pubblico nei limiti annualmente fissati dal Consiglio superiore.
Alle dette spese devono aggiungersi, per accertare l’ammontare degli utili netti disponibili, anche le sofferenze dell’esercizio, gli occorrenti ammortamenti ed oneri consimili nonché le rate di ammortizzazione delle spese che il Consiglio superiore giudicasse ripartibili in più esercizi.
Gli utili netti, conseguiti secondo il bilancio approvato, dopo di avere da essi prelevata la somma che il Consiglio superiore crederà di stabilire per la graduale costituzione di un fondo di riserva ordinaria fino a concorrenza del 20% degli utili netti, sono assegnati ai partecipanti, per la distribuzione di un dividendo fino ad una somma pari al 6% del capitale. Col residuo, sempre su proposta del Consiglio superiore, possono essere costituiti eventuali fondi speciali e riserve straordinarie mediante utilizzo di un importo non superiore al 20% degli utili netti complessivi e può essere distribuito ai partecipanti, ad integrazione del dividendo, un ulteriore importo non eccedente il 4% del capitale. La restante somma è devoluta allo Stato, in applicazione dell’art. 3 del Decreto ministeriale 31 dicembre 1936 emanato in esecuzione del R. decreto-legge 5 settembre 1935, n. 1647. La riserva ordinaria, se diminuita per ammortizzazione di perdite o per qualsiasi altra ragione, deve, salvo il disposto del successivo art. 56, essere al più presto interamente reintegrata.
4 ART. 56
Dai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, può essere, su proposta del Consiglio superiore e con l’approvazione dell’assemblea ordinaria, prelevata e distribuita ai partecipanti, pro quota delle singole partecipazioni, in aggiunta a quanto previsto dall’art. 54, una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve medesime, quali risultavano dal bilancio approvato nell’assemblea ordinaria dell’anno precedente.
5 Infatti con la legge 82 del 07.02.1992 varata dal ministro del Tesoro Guido Carli (già Governatore della Banca d’Italia), è stata attribuita alla Banca d’Italia la facoltà di variare il tasso ufficiale di sconto senza doverlo più concordare con il Tesoro.
6 Con questo trattato vengono introdotti i cosiddetti Tre pilastri dell’Unione Europea:
- la “Comunità Europea” che riunisce tutti i trattati precedenti (CECA – Comunità europea del carbone e dell’acciaio, Euratom – Comunità Europea dell’Energia Atomica e CEE – Comunità Economica Europea)
- la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la politica estera di sicurezza e difesa (PESD)
- la Cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (GAI)