ROMA, 1 Aprile – Iar Siltel, di Bassano del Grappa, e Finmek, di Padova, sono nomi di aziende sconosciute alla maggioranza degli italiani.
In queste aziende sono in cassa integrazione – da ben sette anni – alcune centinaia di lavoratori.
Una realistica malignità mi spinge a pensare che tra quegli operai ce ne siano alcuni che, da circa sette anni, stanno lavorando in nero.
La storia delle relazioni industriali mi ha insegnato, fin dai tempi lontanissimi delle Confezioni Monti “Abiti belli, abiti pronti”(oltre dodici anni di cassa integrazione nel laborioso Abruzzo), che i cassaintegrati impegnati in attività in nero non sono stati comunque denunciati dal sindacato, per truffa palese nei confronti dell’istituto della Cassa integrazione.
Quando leggiamo le statistiche dei disoccupati, ci domandiamo mai quanti di costoro stiano lavorando in nero?
E inoltre, continuiamo forse a domandarci quanti lavoratori stranieri stiano lavorando in nero perché clandestini?
I numeri ci sorprenderebbero con la loro cruda realtà.
Del resto, se non esistessero forme di guadagno occulte, a fare da ammortizzatore sociale, ci ritroveremmo la gente per le strade a svaligiare i forni e i negozi di alimentari.
Esistono milioni di persone, colpevoli di modeste evasioni fiscali e contributive individuali, la cui somma dà luogo a cifre pesantissime in negativo per i bilanci nazionali.
Servirebbero costosissimi controlli a tappeto e la collaborazione dei sindacati per arrivare a un drastico cambio di quella mentalità da tanti anni imperante nel Paese.
Questi sono i veri ammortizzarori sociali di cui si dovrebbe parlare, ma la demagogia ci conduce verso altri discorsi mentre l’Italia resta al palo.
guglielmo donnini