di Angela Piscitelli
Mille violini suonati dal vento /
Tutti i colori dell’arcobaleno /
vanno a fermare la pioggia d’argento /
ma piove piove / sul nostro amor…
Ciao ciao bamina / un bacio ancora /
e poi per sempre / ti perderò
Come una fiaba / l’amore passa
C’era una volta / poi non c’è più!
Cos’è che trema / sul tuo visino /
E’ pioggia o pianto?
Dimmi cos’è / Vorrei trovare / parole nuove /
ma piove piove / sul nostro amor
Premessa. Conseguenziale qual sono, l’ho detto e l’ho fatto: non ho guardato nemmeno un nanosecondo la diretta del festival, nemmeno quando il satellite dispettoso mi ha bloccato Ballarò.
Pero’ me lo hanno raccontato i giornali ed i tweet che arrivavano a cascata. Tutto era previsto. Le canzoni non c’erano e se c’erano, nessuno se n’è accorto. Il palco della città dei fiori e la sua competizione di ugole era il fiore all’occhiello di Mamma Rai ai suoi esordi. Ricordo le famiglie riunite a fare il tifo, a discutere sul celestiale acuto di Claudio Villa e sulla poesia di Modugno, ricordo il trionfo della splendida adolescente veronese con le trecce, Gigliola Cinquetti (che bel nome e cognome, di sapore altoitaliano e onomatopeico) che sbaragliò col suo candore gli avversari in patria e poi vinse alla grande pure il Festival Europeo. Che tempi. Esisteva pure il Festival Europeo: quindi c’era l’Europa canterina.
I festival della canzone si facevano con la musica. Affermazione che potrebbe apparire lapalissiana se non fosse che pian piano la musica è sparita e Sanremo è diventato il palco di un comizio approssimativo per qualunque guitto strapagato che abbia voglia di dire la sua nella maniera più sguaiata possibile. Servizio pubblico, si dice. Bene, ma se io pago per ascoltar musica e mi becco Benigni, Celentano, perché no, Saviano è esattamente come se, pagando l’acqua, mi uscissero dai rubinetti le mille bolle blu.
“E vabbuò!”. Si usa dire oggi. Ma il paradosso continua pure a televisione spenta. Si parla solo del comizio. Pare inoltre che il tribuno ne abbia dette di brutte al punto di seminare sconquasso nel consiglio di amministrazione della Rai, e pure questa fa ridere. Perché mica nessuno si è premurato di impartire allo smollato molleggiato il seguente ordine del giorno: “canti, cazzo!” No. Gli hanno messo sotto il naso il contrattone e ciccia. Il guru della via Gluk ha precisato poi che il bel malloppo finirà ad Emergency. Molto bene. Non ce ne può fregare di meno. Certo, ci avrebbe fatto piacere che l’incasso (con due esse e noi con due zeta) fosse devoluto ai danneggiati della neve, oppure alle famiglie dei suicidi per debiti, ma ci mancherebbe, sono soldi suoi. E ci siamo beccati pure tutte le dirette colpevoliste sul fatto che in parecchi decidono di evadere dal canone (Si!“dal” canone. Perché diavolo non sigillano le loro utenze e ci fanno guardare in pace le altre reti? Siamo prigionieri).
Pare che la Lei invierà questa sera un commissario. Ma chi, Montalbano? A fare che? non si sa. Forse a cantare, visto che non canta nessuno; mi sembra difficile che possa consegnare un foglietto allo smodato ed imporgli di recitarlo. Con tutto il rispetto, anche se questo fosse, il testo non sarebbe granché e il fine dicitore nemmeno. Mica è Vittorio Gasman che fu capace di conquistar cuori perfino declamando un’accurata analisi delle urine. E poi sarebbe teatro (teatrino), non musica.
La città dei fiori è diventata così la città dei “fuori” (di testa) che esibiscono in fondo soltanto la loro maleducazione. Col pretesto che nulla va censurato ci bombardano di ogni forma di volgarità banale, di opinione qualunquista elevata a dogma, ogni rancore personale che diventa dottrina. Con obbligo di estasiarci e pagare. Nella confusione generale a nessuno viene in testa che la facoltà di scegliere non è censura. Se la signora Lei invitasse Celentano a casa sua per intrattenere gli amici con i suoi monologhi, noi non avremmo nulla da obiettare (i suoi amici, non sappiamo, magari se la cena è succulenta, si può digerire anche il Gluk). Se invece va a Sanremo, gli invitati paganti siamo tutti noi e si presume che fra questi tutti ci sia qualche nostalgico melomane, qualche mattacchione che vuol sentir canzoni e non sermoni farneticanti. Il famoso inchino dello spot per ringraziare l’abbonato Rai in realtà lo facciamo noi ed è meglio star fermi perché senno’ fa più male.
In fondo il Festival è diventato come i famigerati derivati di cartastraccia: dietro il titolo, più nulla. Ed è cosi’ che anche il canto, che tanto lustro diede e continua a dare alla nostra Patria vivendo di rendita sui passati splendori, si è trasformato in una poltiglia ideologica e demagogica per mezzecalzette imbufalite. A chi giova questo anacronistico baraccone di dissonanze, tribuni, lustrini, ospiti, sponsor, spot, sciatiche, natiche? In tema di sobrietà, non varrebbe la pena abolirlo e sostituirlo con un lungo intervallo di quelli con le pecore, riposante e bucolico e gratuito?
Ah, ho capito. Siamo caduti anche noi nella trappola. Serve perché se ne parli e se ne scriva. Si chiama canalizzazione del dissenso.
Angela Piscitelli, 15 febbraio 2012
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