La sinistra e la lotta sull’articolo 18

di Claudio Romiti

Pietro Ichino (PD)

Sulla già confusa questione del mercato del lavoro, banalmente identificata con l’abolizione o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si innesta una dibattito piuttosto surreale, tutto interno alla sinistra italiana. In particolare, riformisti e radicali si fronteggiano, l’un contro l’altro armati, in uno scontro senza quartiere, innescato dalla proposta di legge del senatore democratico Ichino, il quale vorrebbe introdurre in Italia il sistema scandinavo della cosiddetta flexsecurity.

Una proposta di legge che, in due parole, sembra essere stata elaborata a tavolino come una vera e propria alchimia, tale da far invidia al famoso Paracelso. Ma come tutte le alchimie che, come è noto, hanno la pretesa di trovare la panecea universale per ogni cosa, anche in questo caso l’elaborato del professor Ichino, pur partendo da una premessa corretta -togliere le ingessature al mercato del lavoro così come ci chiede l’Europa da tempo-, appare totalmente sganciato dalla cruda realtà, soprattutto in un momento di grave difficoltà per il sistema delle imprese.

Molto in breve, l’idea dell’esponente democratico sarebbe quella di permettere anche alle imprese sopra i 15 dipendenti di licenziare i salariati considerati in esubero senza l’ombrello della giusta causa ma, ed questo il punto che rende del tutto inaplicabile il suo disegno di legge, in cambio alle imprese è chiesto un impegno economico a dir poco proibitivo. In sostanza, queste ultime dovrebbero dare un preavviso al proprio dipendente un preavviso che va da tre a dodici mesi, a seconda dell’anzianità di servizio, ed un congruo indennizzo sempre sulla base della loro permanenza nell’impresa.

Inoltre, al lavoratore licenziato la stessa impresa dovrebbe corrispondere, in attesa che questi trovi un altro impiego, una indennità mensile fino a garantire una copertura massima per tre anni. Tale indennità ammonterebbe al 90% dell’ultimo stipendio nel primo anno, per poi decrescere di un 10% ad ogni annualità successiva.

Ora, come capisce pure un bambino, si tratta di una proposta esageratamente onerosa per le aziende e, dunque, con una scarsissima possibilità pratica di essere realizzata; tanto è vero che su questo punto il diniego della Confindustria è stato molto deciso. Per questo, come detto all’inizio, ci appare del tutto surreale il dibattito che su questo tema si è aperto nella sinistra, trattandosi evidentemente di una questione di pura accademia.

D’altro canto è sufficiente un semplice argomento per smontare la complessa impalcatura della proposta avanzata dal giuslavorista Pietro Ichino. Se, infatti, si stabilisce che una azienda possa licenziare anche singolarmente per problemi legati all’andamento economico della azienda medesima, ovvero l’incapacità di far quadrare i conti senza tagliare l’organico, come potrebbe poi la stessa mettersi nella prospettiva di dover comunque sostenere gran parte del reddito dei propri esuberi in un tempo tanto lungo?

Da questo punto di vista si tratta di una vera e propria contraddizione in termini che le leggi fondamentali dell’economia non possono che rilevare, bocciando nei fatti la tesi in oggetto. Tuttavia, come stiamo purtroppo osservando soprattutto in questi ultimi tempi, sembra che oramai le aspirazioni  della politica dei desiderata abbiamo fatto piazza pulita di ogni criterio logico, per cui possiamo aspettarci di tutto, persino la possibilità che l’utopistica riforma del mercato del lavoro portata avanti dall’area riformista del Pd diventi una insostenibile realtà. Staremo a vedere.

Claudio Romiti