di Claudio Romiti
In attesa che la “nave” Monti esca dalle nebbie dell’incertezza sui provvedimenti da adottare, che dovrebbero essere presentati al Paese entro il prossimo 5 dicembre, mi sembra utile ragionare brevemente intorno ad una certa impostazione economica che sembra emergere dalle dichiarazioni ufficiali del premier in tema di rilancio.
Molto in soldoni, a quanto risulta, il governo dei professori vorrebbe adottare la seguente ricetta onde consentire all’Italia di riprendere la strada dello sviluppo: aumentare il prelievo fiscale sui patrimoni e sui consumi, destinando buona parte delle risorse rastrellate per alleggerire la fiscalità sul mondo del lavoro, beneficiando imprese e salariati.
In sostanza, attraverso il varo di nuove tasse sugli immobili ed inasprendo ulteriormente l’Iva, l’imposta regina sugli acquisti di beni e servizi, si intenderebbe favorire il mondo della produzione così da avere un saldo positivo dall’intera operazione, sebbene la stessa assumerebbe il valore di una mera partita di giro contabile.
In realtà, per come si stanno mettendo le cose, c’è il rischio fondato che una nuova lenzuolata di tasse, seppur sotto il nobile scopo di rilanciare l’economia, possa ottenere tutta una serie di effetti recessivi che il governo Monti dovrebbe cercare di evitare come la peste. Infatti, occorre considerare che oltre l’80% delle famiglie italiane sono proprietarie di almeno un appartamento e che, cosa ancor più significativa, la platea dei consumatori riguarda l’intero Paese, comprese le eventuali categorie economiche a cui sarebbero diretti gli sgravi fiscali.
Ora, per come sono sempre andate le cose in tema di fisco, potrebbe nascere il sospetto che alla fine dei giochi questa sorta di partita di giro finanziaria, dai contorni vagamente keynesiani, finisca per aumentare la quota di ricchezza gestita dalla mano pubblica, deprimendo ulteriormente le già prostrata propensione al consumo ed all’investimento produttivo del sistema economico.
Vorrei ricordare, a tale proposito, che attualmente le risorse direttamente controllate dalla stessa mano pubblica stanno viaggiando verso la stratosferica quota del 55% del Pil, complice il forte rallentamento dell’economia e le ultime manovre imposte dall’Europa. Ebbene, è ampiamente dimostrato da una infinita sequenza di analoghe esperienze che laddove la spesa pubblica abbia superato metà della ricchezza prodotta la crescita economica si è letteralmente impallata, portando molto spesso i Paesi interessati sulla soglia della bancarotta.
Ciò, molto in sintesi, è avvenuto perchè -anche questo ampiamente dimostrato dai fatti- lo Stato non è in grado di pianificare, attraverso un atto deliberato della politica, alcuna forma di sviluppo. Sviluppo che, come a questo punto anche i professori al governo dovrebbero aver compreso, solo l’autonoma spinta a produrre della società spontanea può conseguire.
Per questo l’unica politica seria che è ragionevole tentare per tornare a crescere è quella legata ad un sotanziale alleggerimento di tutte le forme di prelievo fiscale, così da lasciare più risorse ai consumi ed agli investimenti produttivi. Ma per fare questo occorre toccare quel molok che pochi ancora oggi hanno il coraggio di definire tale: la spesa pubblica, soprattutto quella corrente.
Proprio la crescita incontrollata della spesa rappresenta il vero motivo dei nostri guai, dato che per finanziare i suoi evidenti eccessi improduttivi il Paese reale si trova nell’incapacità di sviluppare appieno le sue enormi potenzialità. Per questo, come ho sempre sostenuto su queste pagine, o si taglia la spesa o si muore.
L’idea di continuare a governare un Paese affetto da troppo Stato solo scambiando l’ordine dei fattori oramai ha fatto il suo tempo. Il governo Monti, se vorrà veramente aiutare a far ripartire la nostra economia, dovrà per forza fare i conti col tema fondamentale dell’eccesso di spesa pubblica.
Staremo a vedere.
Claudio Romiti