I crolli finanziari e i cosiddetti debiti sovrani

di Claudio Romiti

Checchè ne dicano i detrattori di un liberismo che, almeno da noi, non si è mai visto nemmeno in fotocopia, i crolli finanziari di questi ultimi tempi sono dovuti essenzialmente al problema irrisolto dei cosiddetti debiti sovrani. Non a caso si parla a ragione di crisi del debito e non di qualche altra astrusa teoria.

L’intero mondo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, è affetto da un eccesso di debito che sta portando gli investitori a vendere i titoli dei Paesi considerati meno affidabili sul piano della restituzione del debito medesimo. Questo non può che provocare un effetto a catena sulle borse e, cosa che i più fanno fatica a comprendere, sulla liquidità del sistema bancario.

Ciò determina il rischio molto concreto di un colossale black out dell’economia reale. Tutto questo, a mio parere, ha a monte una causa ben precisa: eccesso di spesa pubblica. In breve, è accaduto ciò che già molti anni fa pochi avvertiti osservatori di area liberale si aspettavano.

Ossia il tracollo economico-finanziario di un sistema di collettivismo strisciante che si stava sempre più insinuando nelle nostre società di mercato, fondate sulla libertà d’iniziativa e sulla proprietà privata. Tutto ciò, creato da una chiara aberrazione delle democrazie verso l’uso di crescenti risorse in cambio di consenso, si è basato sulla fiducia che i singoli Paesi riscuotevano in merito alla solvibilità dei loro indebitamenti.

Tutto questo almeno fino a quando, e prima o poi doveva accadere, una devastante crisi finanziaria, traslata rapidamente nell’economia reale, non arrivasse a mettere a nudo le carenze di un sistema politico generale sempre più orientato sulla linea del cosiddetto deficit-spending. In pratica è avvenuto che quasi tutti gli Stati avanzati hanno risposto al drastico rallentamento dell’economia seguito all’esplosione della bolla immobiliare americana e dei suoi titoli tossici facendo ulteriormente crescere la spesa pubblica, secondo una sempre più obsoleta ricetta keynesiana.

Nel tentativo di mantenere in piedi quella forma di comunismo occulto che va sotto il nome di Stato sociale, anche i Paesi della zona euro hanno pensato bene di rispondere al crollo del Pil aumentando di molti punti il deficit e, conseguentemente, l’indebitamento complessivo. E così è accaduto che chi era già in difficoltà di bilancio ed aveva un eccesso di esposizione debitoria ha visto lievitare in modo esponenziale gli interessi che il corretto scetticismo dei mercati richiedeva per rinnovare i relativi titoli pubblici, portandolo sulla soglia del default.

Ora, dato che l’Italia appartiene, ahinoi, proprio al novero dei Paesi più esposti alla perdita di fiducia dei citati mercati circa la possibilità di onorare i creditori, mi sembra ovvio che dovremmo trovarci in prima linea nell’affrontare con una cura assolutamente convincente il male che ci affligge.
Un male che si caratterizza, come accennavo all’inizio, per un eccesso di spesa pubblica -oramai superiore al 53% del Pil- che impedisce da almeno 20 anni al sistema economico di sviluppare secondo le sue enormi potenzialità. D’altro canto, alta spesa pubblica e bassa crescita costituiscono le due facce della medesima medaglia di quella citata spinta collettivista che sta mandando in bancarotta l’Italia.

Per questo motivo credo che, al di là di una certa diplomazia politica orientata a cercare ovunque consenso e coesione sociale, il governo Monti non abbia molte chance di riuscire nella sua “mission impossible” di raddrizzare la baracca se non procederà ai necessari tagli al molok di una spesa che ha sfondato ampiamente la soglia degli 800 miliardi di euro.

Non c’è politica di rilancio dell’economia che tenga se non si blocca la tendenza di un sistema a creare redditi pubblici, sotto una infinità di voci, attraverso un prelievo di risorse che la società produttiva non riesce più a sopportare. Da questo punto di vista, se dovesse prevalere la linea della sinistra, centrata sulla solita redistribuzione delle risorse, lasciando inalterate le enormi uscite pubbliche, anche il professor Monti si troverebbe costretto, come in parte sembra che stia già tentando di fare, ad inasprire ulteriormente la fiscalità allargata.

Ma questo sarebbe un errore fatale che condannerebbe il Paese ad un fallimento senza possibilità di recupero.

Claudio Romiti