La ricetta per far rinascere il paese e la politica

di Claudio Romiti

In prospettiva all’Italia non servono governi di salvezza nazionale né esecutivi gattopardeschi, come spesso è accaduto sotto tutte le bandiere, che si sostengano solo sulla base dei cosiddetti effetti annuncio. Il Paese è stanco di promesse mirabolanti, di contratti mediatici e di una autoreferenzialità sempre disattesa dai fatti.

Chiunque sarà chiamato nella stanza dei bottoni dal popolo sovrano, al di là di questa convulsa fase transitoria, dovrà questa volta affrontare il vero nodo che blocca ogni speranza di rilancio del sistema socio-economico: il taglio della spesa pubblica.

Una spesa pubblica la quale, non ci scordiamo mai di ripeterlo, oramai raggiunge il 53% della ricchezza prodotta in un anno. Questo evidente eccesso, che ci avvicina ai regimi del socialismo reale, in primis impedisce la realizzazione di quel tanto auspicato abbattimento della pressione fiscale allargata, che in soldoni costituisce l’unica strada che una classe politica responsabile può seguire per incentivare lo sviluppo economico.

In secondo luogo, ed è questo un aspetto troppo spesso sottaciuto, data la composizione di tale spesa – in gran parte destinata a pagare pensioni, stipendi ed emolumenti vari – resta poco o nulla per ammodernare il Paese sotto il profilo della infrastrutturazione. Per dirla in una battuta, il nostro sistema politico da sempre preferisce impiegare gran parte delle enormi risorse rastrellate per gestire il proprio consenso, anzichè costruire opere che ci consentano di entrare a pieno titolo nel XXI secolo.

E dunque, tanto per fare un esempio, nel settore strategico delle ferrovie si è storicamente privilegiato la salvaguardia di tanti, troppi posti al sole al costo di mantenere gran parte della rete con l’anacronistico binario unico, con ancora molti treni degni del classico Far west. In sostanza, laddove la mano pubblica ha potuto giungere la spesa si è dilatata non per arricchire il Paese sotto il profilo tecnico-strutturale, ma quasi essenzialmente sul piano degli esuberi e dei privilegi concessi a questa o quella categoria sindacalmente organizzata.

Ed a forza di proseguire su questa dissennata impostazione, che ripeto è stata perseguita un po’ da tutti, la spesa pubblica è arrivata a condizionare il consenso di grandi territori, soprattutto nella parte meno evoluta della Penisola. Ciò ha, sempre molto in sintesi, ristretto la platea dei ceti produttivi, disincentivati da una burocrazia ed una fiscalità asfissiante, a tutto vantaggio di crescente esercito di personaggi spinti a cercare una rendita vitalizia sotto l’enorme ombrello dello Stato o chi per esso.

Il risultato di questa costante propensione della politica è stato quello di squilibrare l’intero sistema economico, chiamato a sostenere uno sforzo sempre più proibitivo al fine di sovvenzionare una enorme spesa in gran parte improduttiva. Da qui nasce la sfiducia dei mercati finanziari, i quali – in assenza di profonde riforme – osservano con atteggiamento critico un Paese indebitato fino al collo che continua a spendere ed a tassare troppo e, conseguentemente, affetto da bassa crescita.

Ora, è ovvio che per riguadagnare la medesima fiducia è assolutamente necessario muoversi nella direzione di quelle amare scelte impopolari che il buon Casini auspica da tempo dai comodi banchi dell’opposizione. Scelte che portino finalmente la mano pubblica a compiere quei due salutari passi indietro, con meno Stato e più libertà nell’iniziativa privata.

Solo che, ci si chiede, il fritto misto che si prepara a sostituire il governo Berlusconi, dominato da una sinistra ancora molto legata ai miti del collettivismo, sarebbe in grado di fare ciò che il mondo avanzato ci chiede? Francamente, per crederlo ci vorrebbe qualcosa di più che un semplice atto di fede.
Staremo a vedere.

Claudio Romiti