Lavoro: interesse comune a produrre, questa la soluzione

di Claudio Romiti

Era evidente che il tema della flessibilità sul mercato del lavoro, strumentalmente definito da opposizione e sindacati come facilità di licenziare, avrebbe scatenato molte polemiche. Sotto questo profilo, da liberale, ritengo che si possa criticare il governo per aver dovuto attendere le indicazioni dell’Europa prima di prendere l’iniziativa, ma non certamente bacchettarlo nel merito della questione di fondo.

Tuttavia è noto che la principale attività di tanti nostri uomini pubblici è quella di usare la demagogia a piene mani allo scopo di ottenere molto facile consenso. E sul tema in questione parecchia ne ha usata il presidente della Camera Fini allorchè, riprendendo una sostanziale sciocchezza di provenienza sinistra, ha fatto sua una tesi assolutamente strampalata, avanzata in precedenza dai quei noti keynesiani che fanno capo alla Cgia di Mestre. In sostanza, il leader di Futuro e libertà ha sostenuto che “favorendo la possibilità di licenziare si rischierebbe di veder moltiplicare il tasso di disoccupazione”.

Ora, se così stessero le cose vorrebbe dire che per aumentare i posti di lavoro stabili basterebbe un semplice decreto legge con il quale obbligare il cosiddetto padronato a stipulare solo contratti a tempo indeterminato. In questo modo, invertendo la relazione finiana, se la facoltà di mandare a casa i dipendenti aumenta la disoccupazione, il suo esatto contrario -la perfetta rigidità- dovrebbe automaticamente far crescere i salariati a vita. Abbiamo quindi trovato la pietra filosofale per risolvere il tormentone del precariato: nessuna flessibilità in uscita.

Ciò vorrebbe anche dire che le aziende, di qualunque natura e dimensione, non assumono i propri dipendenti in funzione delle loro esigenze produttive, stimolati dalle stesse a formare e tenersi i soggetti più capaci e responsabili. Niente di tutto ciò. A parere di chi non comprende i più elementari meccanismi del mercato l’occupazione rappresenta un valore a prescindere da tutto il resto. Qualcosa di analogo alla tesi, altrettanto strampalata, del Cgil degli anni ’70, con cui si rivendicava il salario come variabile indipendente, ossia sganciato da qualunque criterio di produttività.

In realtà, fatte salve alcune garanzie minime di base a tutela delle parti più fragili, tanto i contratti che i livelli reddituali dovrebbero essere regolati da quella tanto bistrattata mano invisibile di smithiana memoria. Infatti, il collante più adatto a garantire solidità alle imprese e stabilità ai posti di lavoro si chiama interesse comune a produrre, e non può essere certamente stabilito per legge da una sorta di moderno soviet dell’occupazione.

Così come, il caso eclatante dei Paesi anglosassoni lo dimostra, laddove risulta più facile licenziare è anche molto più agevole trovare lavoro, ribaltando nei fatti la tesi dei sostenitori delle anacronistiche rigidità occupazionali. Mentre, e qui concludo, rendere i contratti di lavoro simili ai matrimoni religiosi, il cui annullamento spetterebbe solo alla Sacra Rota, costituisce un formidabile freno alla nuova occupazione.

Claudio Romiti