di Claudio Romiti
Il tema della previdenza pubblica, sotto i riflettori in questi giorni, rappresenta un argomento molto scomodo da affrontare, soprattutto quando occorrerebbe adottare misure oltremodo impopolari nell’ambito di un Paese tendente ad un rapido invecchiamento. Di fatto le pensioni rappresentano per la politica in generale l’argomento più delicato sul piano del consenso; per cui ogni partito si mostra sempre molto cauto in merito alla possibilità di una riforma di un settore che oramai tocca un numero di persone che sta crescendo ad una media tale da raggiungere, in assenza di profonde modifiche, in pochi anni la platea dei lavoratori in attività.
Nel 2009 sono state erogate 23,8 milioni di prestazioni pensionistiche, per una spesa complessiva di oltre 253 miliardi di euro, ossia ben il 16,68% del Prodotto interno lordo. Ciò dimostra che, nonostante i molti correttivi introdotti nel tempo, il nostro sistema previdenziale pubblico, pur cambiando nome nel meccanismo (ieri detto a ripartizione ed oggi eufemisticamente a contribuzione), nella sostanza continua a pagare i vitalizi dei pensionati utilizzando i soldi versati dai contribuenti in attività.
Un sistema sostanzialmente truffaldino il quale, peraltro utilizzato da quasi tutti gli Stati europei, se fosse adottato da una assicurazione privata, costringerebbe la stessa a dichiarare bancarotta ed a portare i libri in Tribunale. E quando si dice che l’Inps si trova in una situazione florida, con un leggero avanzo nei suoi conti, si dice una sostanziale sciocchezza. In realtà l’ente previdenziale pubblico non capitalizza affatto, come sarebbe obbligo per una pari struttura privata, le somme dei suoi “associati”, ma si limita a fare da tramite in un sistema che funziona sostanzialmente come quella sorta di truffa collettiva che una volta era conosciuta come “catena di sant’Antonio”.
Ciò significa che gli attuali iscritti all’Inps, in gran parte in modo forzoso, dovranno sperare che una volta raggiunto il momento di andare a riposo vi sia qualcun altro che, grazie al proprio lavoro, sia in grado di perpetuare questo infernale giochetto del cerino acceso. Almeno fin quando, Grecia docet, non arrivi una crisi globale che faccia bruciare le dita a tutti, pensionati compresi.
Pertanto, dovrebbe essere chiaro a tutti che non sia possibile continuare a garantire, essenzialmente per ragioni di consenso politico, una previdenza pubblica che, messa negli attuali termini, rischia di rubare letteralmente il futuro alle nuove generazioni. Da questo punto di vista, più che un continuo innalzamento dell’età cui andare in pensione, mi sembrerebbe più ragionevole fissare un tetto minimo alla durata della contribuzione, erogando però una rendita commisurata secondo quanto effettivamente versato.
In questo modo si incentiverebbero i soggetti a prolungare volontariamente la loro carriera lavorativa. Tuttavia, ed è questo il dato politico dolente, riformare nel senso di una effettiva capitalizzazione l’attuale sistema previdenziale, rendendo visibile agli attuali produttori di reddito il fatto che fino a ieri lo Stato ha regalato soldi a chi li ha preceduti, avrebbe il sapore amarissimo dell’impopolarità. Un sapore che la nostra classe politica nel suo complesso ha sempre evitato come la peste. Almeno fino a che il sistema di scaricare i costi della spesa facile su qualcun altro non si inceppasse a causa di una crisi mondiale devastante.
Claudio Romiti