In manette per evasione fiscale. I dubbi che si celano dietro questa scelta

di Claudio Romiti

Sebbene si parli di una soglia che vada oltre i 3 milioni euro di evasione accertata, tuttavia l’idea che un governo di centrodestra possa prevedere il carcere per chi non paghi le tasse, col tassativo divieto di alcuna sospensione condizionale, mi sembra francamente poco consueto. E lo è per tutta una serie di ragioni politiche.

In primis il provvedimento, inserito dal governo tra le ultime modifiche alla Manovra correttiva, dà l’idea di voler inseguire la sinistra tassaiola nell’interpretare in maniera terroristica il rapporto con i contribuenti, anziché percorrere la strada della moderazione fiscale, nella quale la persuasione a fare il proprio dovere dovrebbe andare di pari passo con una graduale e ragionevole attenuazione del prelievo complessivo.

In sostanza, al di là della difficile contingenza, lanciare un messaggio politico “manettaro”, in tema di evasione, in un frangente nel quale è molto diffusa in parecchie categorie economiche la sensazione che si tenda a salvare il salvabile attraverso una sorta di esproprio proletario – sebbene in realtà l’esecutivo Berlusconi abbia parecchio addolcito l’ultima versione della succitata Manovra correttiva – non sembra una scelta felicissima, tanto per usare un eufemismo. E se è vero che la cifra da occultare al fisco per finire dietro le sbarre è fuori della portata della stragrande maggioranza dei produttori di questo Paese, è altrettanto vero che non ci si fa un buona pubblicità nei confronti di tutti coloro i quali, e non sono pochi, si sentono vessati da un sistema tributario che li costringe a difendersi evadendo o semplicemente eludendo piccole somme.

In sostanza, anche se poi sappiamo come vadano queste cose in Italia, divulgare il principio che si possa andare dietro le sbarre per il “reato” di evasione costituisce un vulnus molto serio nella delicatissima relazione tra Stato e cittadini, soprattutto quando le stime più autorevoli parlano di un aumento della pressione fiscale di circa due punti. Ma se consideriamo che il livello vero della fiscalità allargata è quello corrispondente alla spesa pubblica complessiva, la quale attualmente è oltre il 53% del reddito nazionale, al cospetto di una mano pubblica che spende così tante risorse parlare di carcere sicuro per l’evasione, pur nell’ambito di casi estremi, rischia di incentivare molte forme di resistenza fiscale, stimolando la fuga di risorse e di capacità imprenditoriali verso lidi tributariamente più umani.

In altri termini, la maoista impostazione di colpirne uno, in modo esemplare, per educarne cento non credo possa costituire un buon metodo per esortare i cittadini comuni a pagare le imposte.
Sotto questo profilo, come detto all’inizio, lascerei alla sinistra – la quale è tradizionalmente identificata come il partito delle tasse- il ruolo dell’inquisizione fiscale, evitando di rinverdire i “fasti” di personaggi alla Vincenzo Visco. L’idea di usare ogni mezzo, così come avveniva durante la collettivizzazione forzata delle campagne in Urss, per prelevare una quantità crescente di risorse è tipica dei regimi totalitari.

Occorre invece cominciare a parlare non di sbarre e lavori forzati, ma di limiti costituzionali alla fiscalità, oltre i quali nessun sistema politico avrebbe il potere di andare. Se nel Paese dovesse definitivamente prevalere il concetto collettivista del prelievo illimitato sul diritto alla proprietà, vorrebbe dire che il socialismo si è completamente affermato.

Claudio Romiti