Un imprenditore scopre che un dipendente della sua azienda gli tromba la moglie. L’imprenditore decide di lincenziare il trombatore (anche se farebbe meglio a “licenziare”, come moglie, la trombata; ma questi sono fatti personali di lui medesimo).
Il licenziamento del trombatore non mi sembra rientrare nella fattispecie della giusta causa ex articolo 18. Il trombatore licenziato ricorre al giudice del lavoro e viene reintegrato nel suo ruolo di lavoratore; non essendo nei legittimi poteri del giudice reintegrarlo in quello di trombatore.
La soluzione, che ogni individuo dotato di un minimo buon senso indicherebbe, è un congruo indennizzo al lavoratore licenziato senza giusta causa. L’assurdo dell’art.18 sta nel fatto che il lavoratore-trombatore può rifiutare l’indennizzo, eventualmente stabilito dal giudice, e chiedere di essere reitegrato nel suo posto di lavoro. Siamo al ridicolo.
Eppure l’art.18 deve considerarsi il paradosso italiano delle relazioni industriali. Il tabù che rende vieppiù ingessata la vita delle imprese italiane. È giusto che nessuno licenzi un lavoratore per mero capriccio o perché porta i capelli lunghi. Nel caso l’imprenditore volesse farlo, è sacrosanto che paghi un congruo indennizzo al licenziato e resti chiaro per chiunque -a titolo di benservito ufficiale- che quel lavoratore è stato licenziato malgrado l’assenza di giusta causa. Ma noi siamo in Italia. E si vede.
Guglielmo Donnini