di Massimo Introvigne
È ufficiale: la Francia, che l’ha voluta, e la NATO, che l’ha appoggiata, stanno perdendo la guerra in Libia. Una fitta coltre di propaganda nasconde questa verità, ma per dissiparla è sufficiente chiederei quali erano – rispettivamente – l’obiettivo dichiarato e quello reale della guerra. L’obiettivo dichiarato – proteggere la popolazione civile – è fallito fin dai primi giorni. Una guerra-lampo dove l’intervento della NATO avesse posto fine rapidamente a quella che era a tutti gli effetti una guerra civile tra libici avrebbe potuto in effetti limitare il numero delle vittime, che in questi casi più durano i conflitti, più aumentano. Parecchi mesi di bombardamenti senza esiti hanno fatto invece aumentare, non diminuire i civili colpiti perché le bombe, per “intelligenti” che siano, aggiungono sempre morti a morti.
Il vero obiettivo della guerra, fortemente voluto dal presidente francese Nicolas Sarkozy, era l’eliminazione politica, e possibilmente anche fisica, del colonnello Muhammar Gheddafi, e la sostituzione del suo governo con il Consiglio Nazionale di Bengasi. Quest’ultimo – oltre a rappresentare gli interessi della Cirenaica, da sempre contrapposti a quelli della Tripolitania – è ampiamente una creazione francese e ha alla sua testa un paio di ministri del regime di Gheddafi, che rappresentano interessi tribali entrati in conflitto con il colonnello e sono passati in pochi giorni ai ribelli con il decisivo incoraggiamento di Parigi.
Sul piano diplomatico, Sarkozy ha ottenuto alcuni indubbi successi, compreso quello di trascinare l’Italia, Paese molto influente in Libia e legato da molteplici relazioni al governo di Gheddafi, in un’avventura militare impopolare e ambigua e in un frettoloso riconoscimento del Consiglio Nazionale di Bengasi. Sul piano militare, invece, tutti i calcoli di Sarkozy sono falliti. Nonostante il massiccio appoggio aereo e finanziario della NATO, le truppe del Consiglio Nazionale si sono rivelate raccogliticce e dilettantesche e non sono riuscite a prevalere sul campo. La resistenza dell’esercito fedele a Gheddafi, che doveva durare pochi giorni, va avanti invece da cinque mesi. Finalmente, anche Parigi ora parla di “soluzione politica” e di una trattativa che coinvolga l’attuale governo di Tripoli – con la foglia di fico della non partecipazione personale di Gheddafi ai colloqui -, un riconoscimento esplicito e clamoroso che la “soluzione militare” è fallita.
Che cos’è, però, la “soluzione politica”? Qui le cose si fanno piuttosto fumose. Per quanto Parigi e la NATO debbano dichiarare che non tratteranno con Gheddafi, è chiaro che – a meno che un missile, dopo mesi di fallimenti, centri fortunosamente il suo bunker – è con lui, per interposta persona, che occorrerà mettersi d’accordo. L’idea di portarlo davanti a un tribunale internazionale e processarlo come criminale, com’è evidente, non è una buona base per una trattativa. Anche se nessuno lo dice chiaramente, le ipotesi sul tavolo sono soltanto due.
La prima, che nessuno nella NATO vuole ma che alla fine potrebbe emergere come realistica, è la divisione della Libia in due: a Gheddafi o ai suoi figli e sodali resterebbe la Tripolitania, ai ribelli di Bengasi la Cirenaica. Le due regioni del resto sono state unite artificialmente dal colonialismo italiano e non si sono mai amate. Dal momento che gran parte delle risorse economiche sta in Cirenaica, e le strutture militari sono soprattutto in Tripolitania, questa soluzione costringerebbe la comunità internazionale a una lunga e costosa vigilanza per evitare che fra i due Paesi che risulterebbero dalla divisione della Libia scoppi rapidamente una nuova guerra.
La seconda ipotesi è che, negando a gran voce di farlo, gli uomini di Bengasi – che alla fine rispondono comunque alla Francia – si siedano al tavolo con emissari di Gheddafi e concordino un cessate il fuoco, seguito dalla formazione di un governo provvisorio in cui siano rappresentate le varie componenti e tribù e da una preparazione, presumibilmente lunga, di elezioni.
Questa è l’ipotesi preferita dalla NATO e dall’Italia, ma può funzionare solo se la accetta Gheddafi, che potrebbe anche rinunciare personalmente a ogni carica pubblica in cambio di garanzie sul suo destino personale – preferisce rimanere in Libia con un ruolo onorifico, ma potrebbe accettare di trasferirsi in un Paese “sicuro” – e su quello della sua famiglia estesa e della sua tribù, che evidentemente non potrebbero essere escluse da un processo politico che cerchi di riconciliare tutte le fazioni.
Se però si tenessero tra qualche mese o qualche anno elezioni, chi le vincerebbe? È difficile, senza sfera di cristallo, fare previsioni attendibili ma si può tentare un’ipotesi e segnalare un fatto. L’ipotesi è che gli uomini di Bengasi si rivelino altrettanto inconsistenti sul piano politico come lo sono stati su quello militare. Come in Tunisia e in Egitto, si contrapporrebbero allora una metamorfosi in partito del vecchio regime – un gheddafismo senza Gheddafi, che potrebbe contare su un personale di professionisti della politica e su strutture consolidate – e l’islam politico.
Al riguardo, si deve segnalare che – mentre tutta l’attenzione è su possibili infiltrazioni di al-Qa’ida – pochi si sono accorti che, con massicci aiuti dei loro confratelli egiziani, i Fratelli Musulmani, cioè la principale forza internazionale del fondamentalismo islamico, stanno rapidamente organizzandosi in Libia per diventare in caso di elezioni il primo partito del Paese. Il loro leader libico, Ali al-Salabi, è stato in esilio fino al 2007 quando è rientrato in Libia grazie ai buoni rapporti con il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, che lo ha voluto nel consiglio di amministrazione della sua Fondazione Internazionale per lo Sviluppo. Questo non gli ha impedito nel 2011 di tessere rapporti anche con il Consiglio Nazionale di Bengasi, di approvare la risoluzione dell’ONU e nello stesso tempo di criticare le modalità dell’intervento della NATO.
I Fratelli Musulmani hanno proposto una bozza di Costituzione, la Carta Nazionale, che proclama la legge islamica, la shari’a, come fonte principale del diritto nella nuova Libia. Ali al-Salabi è considerato uno dei pochi politici libici onesti ed è stimato e popolare sia in Tripolitania sia in Cirenaica. Tra i due litiganti – la famiglia Gheddafi e i ribelli di Bengasi – potrebbero essere lui e i Fratelli Musulmani a emergere, alla fine, come il terzo che vince veramente.