di Vincenzo Merlo
“Quella della Merkel è una politica economica seria, altro che la nostra!” L’affermazione dell’on. Boccia (PD) al tg3 di mezzanotte del 30 giugno, in riferimento al recente decreto dell’esecutivo, è di quelle che non ammettono repliche.
La manovra economica del governo tedesco (che ammonta a 80 miliardi di euro) in ordine alla stabilizzazione dei conti e al contrasto della crisi, sembra sorprendentemente diventata la nuova stella polare del partito guidato da Bersani (evidentemente immemore dei tanti attacchi portati fino a ieri alla cancelliera democristiana), ed incentrato più che mai a polemizzare con il governo Berlusconi. Ma davvero la politica economica fin qui realizzata dall’esecutivo italiano deve essere criticata ad alzo zero, se paragonata a quella della Germania e degli altri Paesi occidentali?
L’opinione di chi scrive è radicalmente diversa da quella dell’opposizione italiana. I motivi sono presto detti: se è vero che l’economia tedesca mostra i migliori segnali di ripresa tra tutte quelle del mondo occidentale (in particolare per l’aumento del P. I. L., dovuto essenzialmente al traino delle esportazioni), è altrettanto vero che i sacrifici imposti dalla Merkel sono stati pesantissimi, a partire dalla riduzione programmata del 25% agli stipendi del pubblico impiego, all’aumento dell’imposta indiretta al 25%, all’eliminazione della cassa integrazione.
Tagli incisivi ma laceranti, come si vede, che hanno determinato un crescente malcontento nella popolazione tedesca, che ormai da due anni infligge sconfitte impietose all’esecutivo della cancelliera. Davvero il partito di Bersani vuole seguire questo esempio di “lacrime e sangue” per ripianare i conti e far crescere l’economia? Davvero i “democratici” non si ricordano di aver propagandato, all’inizio della crisi, una ricetta esattamente opposta, e cioè quella keynesiana dell’incremento della spesa pubblica, imputando al governo italiano di non allargare i cordoni della borsa? Certo il nostro Paese non cresce come la Germania (il problema, però, non riguarda solo la situazione attuale, essendo vecchio di almeno vent’anni), ma la politica economica del governo Berlusconi, in questi tre anni di crisi mondiale, ha saputo brillantemente fronteggiare l’emergenza dei conti pubblici, da un lato senza l’impiego di iniezioni di spesa pubblica (come consigliato dall’opposizione), dall’altro estendendo la rete di protezione sociale, evitando tagli da “macelleria sociale”.
Rispettando i vincoli di bilancio (il rapporto deficit-pil è stimato uno dei migliori al mondo, al 4% nel 2011, e addirittura prevedibilmente azzerato nel 2014; l’inflazione al 2. 7%, in linea con la media europea), la linea prudente impressa dal ministro Tremonti è riuscita nell’impresa di ampliare la cassa integrazione, non solo mantenendo i benefici a favore dei lavoratori dell’industria, ma estendendoli anche a quelli del commercio e dei servizi. Sì è inoltre lavorato con successo (d’intesa con i sindacati più responsabili, vale a dire Cisl, Uil, Ugl) per far rimanere in Italia il più grande gruppo automobilistico, che investirà miliardi per le nuove produzioni (pur in cambio di norme più rigide nell’organizzazione del lavoro); si è salvata dal fallimento la compagnia aerea nazionale. Queste misure hanno contribuito ad abbassare il tasso di disoccupazione, che ora si attesta all’8, 1%, a fronte di una media dei Paesi euro al 9. 9% (con punte del 21. 5% in Spagna). I provvedimenti del governo Berlusconi, in sostanza, sono riusciti a conciliare il rispetto dei conti pubblici e il mantenimento della pace sociale, laddove molti altri Paesi non sono riusciti nell’intento, sbilanciandosi ora in un senso, ora nell’altro.
I meriti dell’esecutivo italiano non si fermano qui: è stata abolita l’Ici sulla prima casa, si è tenuta a bada la dinamica pensionistica, protetto il risparmio, ridotto l’assenteismo pubblico, costruito a tempo di record le case per 18 mila aquilani, abbattuto i vincoli ideologici che bloccavano grandi opere pubbliche. Si è realizzata la migliore riforma della scuola e dell’università dal dopoguerra.
Certo si può fare di più e di meglio, a partire dal taglio dei costi della politica, che sconta emolumenti elevati e 4 livelli di governo (Stato, Regioni, Province, Comuni): troppi per qualsiasi Paese. Ma la strada percorsa fin qui non mi pare affatto disprezzabile.
Vincenzo Merlo – www.miradouro.it