di Antonio Amorosi
Palmi (Reggio Calabria) – Una richiesta di aiuto fatta a don Pino De Masi di Libera per una bruttissima storia di usura in cui è incappata una famiglia calabrese.
I Mammola, di Polistena, sono in difficoltà economica e si fanno prestare dei soldi dai vicini di casa perché le banche, a causa della crisi, hanno chiuso il credito al loro negozio.
I loro vicini sono gli Zappia, zii di Giacomo Zappia, ex presidente della cooperativa calabrese Valle del Marro di Libera terra, ideata anche da don Pino De Masi. Ma i soldi prestati, 50.000 euro, sono di provenienza da attività usuraia.
Gli Zappia chiedono una restituzione di 70.000 euro in poco tempo che poi diventeranno quasi 120.000, visto che i Mammola vorrebbero una dilazione. In seguito arriveranno anche le minacce.
Il prete di Libera, don Pino De Masi non sostiene le vittime né li porta a denunciare alle forze dell’ordine ma li invita a pagare. Il parroco, premio Paolo Borsellino 2015, personaggio televisivo nazionale, don Pino De Masi è un’autorità e un simbolo in Calabria.
In tribunale il prete sostiene il contrario ma il pm e il presidente della Corte lo inchiodano grazie ad una registrazione audio dei colloqui tra lui e le vittime: “Lei fa finta di non capire, ho la sensazione che faccia il finto tonto…Siamo al limite…”, gli dice il presidente dei giudici Gianfranco Grillone e chiude la deposizione del prete esclamando: “Don De Masi ha dato delle risposte che non ci tornano”.
Un settimana fa i due imputati, Giuseppe e Ottavio Zappia, sono stati condannati per usura ed estorsione a 7 e 5 anni di carcere ai danni dei Mammola. La sentenza è stata emessa dal collegio del Tribunale di Palmi che ha accolto quasi in pieno la richiesta del pm Anna Pensabene. L’avvocato Antonio Cimino, legale dei Mammola, ha chiesto l’invio degli atti alla procura per valutare se don Pino De Masi, sia incorso nel reato di falsa testimonianza durante la sua deposizione nel processo. Nelle pieghe dei verbali emerge la realtà inquietante.
“Incontrai in parrocchia entrambe le parti”, ha raccontato don De Masi durante l’udienza, “volevano che dirimessi una controversia, ma non erano d’accordo sulla cifra, nessuno ha parlato di prestito a carattere usurario, il mio rammarico è questo, di non avere capito, altrimenti avrei detto di denunciare e non avrei convocato gli Zappia”. Una versione che contrasta con la registrazione audio dell’incontro fatto col prete da William Mammola, figlio di Vincenzo, esasperato per la situazione in cui si trovava il padre, anche sull’orlo del suicidio dopo le minacce.
Nella conversazione registrata il giovane William Mammola diceva chiaro a don De Masi che quel prestito era usurario.
“Io mi aspettavo”, ha spiegato a processo, “che lui mi portasse a denunciare in quanto rappresentante di Libera… cercavamo la forza di denunciare ma la sensazione che avevo è che parteggiasse per gli altri”.
I Mammola si erano rivolti a don Pino De Masi perché insieme al nipote degli Zappia è tra i fondatori della cooperativa calabrese di Libera Terra Valle del Marro. Il giovane Zappia contattato da De Masi, a detta del prete a processo, avrebbe riferito di non voler avere niente a che fare con tutta la storia e di restarne fuori. I Mammola messi alle strette hanno denunciato tutto alle forze dell’ordine. Dopo il processo una settimana fa è arrivata la condanna. Qui e qui i verbali del caso.
L’amarezza è tanta ma non è la prima volta. Nella storia recente già altri “simboli” antimafia o persone legate a Libera hanno mostrato un volto nascosto, tenendo comportamenti a dir poco contraddittori. Tre casi su tutti.
Libera Terra accetta finanziamenti dalla coop Unieco di Reggio Emilia che faceva lavorare società della ’ndrangheta nei suoi cantieri (del finanziamento si racconta nel Convegno di Reggio Emilia di Unieco con Libera Terra il 19 novembre 2011).
2009, in occasione della manifestazione nazionale di Libera a Casal di Principe, vengono portati sul palco il sindaco e un assessore del paese che poi verranno arrestati perché collusi con i clan.
Il sindaco condannato nel 2015. Nella terra del boss Matteo Messina Denaro, il trapanese, il sindaco Ciro Caravà si presentava in tv e nelle piazze usando il nome di Libera, ma era parte della rete del boss. Verrà arrestato e condannato. Solo dopo l’arresto Libera dichiara che non è tesserato.
Ora c’è da chiedersi se il caso di don Pino De Masi, emerso dal resoconto giudiziario di Francesco Altomonte su La Gazzetta del Sud, sia l’ennesimo scivolone del mondo che fa dell’antimafia una professione o resterà uno dei dei soliti fatti indicibili.
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E’ ora di finirla con questi preti che vogliono fare i santi ed alla fine sono più criminali dei criminali stessi!