Napolitano, Merkel e Monti. Il golpe 2011 ci è costato 47 miliardi di euro

Oltre 47 miliardi di euro, pari a 2.840 euro e qualche spicciolo per ogni famiglia italiana. Una cifra che continua a crescere ancora oggi.

di Fausto Carioti

È l’”altro” costo della guerra ai titoli del debito pubblico, che a colpi di rialzi dello spread – giunto sino a 574 punti – si combatté nelle piazze finanziarie e dentro ai nostri portafogli nel 2011 e nel 2012. Le conseguenze di quegli eventi sulla politica furono enormi e raggiunsero il culmine con le dimissioni date da Silvio Berlusconi il 12 novembre del 2011 e con l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti.

Il professore bocconiano – si scoprirà poi – era stato allertato da Giorgio Napolitano già nel mese di giugno. Furono i mesi del “grande complotto” europeo, della telefonata raccontata dal Wall Street Journal – e smentita da Napolitano – con cui, secondo il quotidiano finanziario statunitense, la cancelliera tedesca Angela Merkel “incoraggiò gentilmente” l’allora presidente della Repubblica “a cambiare il primo ministro se Silvio Berlusconi non fosse riuscito a cambiare l’Italia”. Tesi confermata nella sostanza dall’ex segretario al Tesoro americano Tim Geithner, il quale, nel proprio libro di memorie, ha raccontato di quando “alcuni funzionari europei” chiesero (invano) all’amministrazione Obama di impegnarsi per fare uscire Berlusconi di scena.

LO TSUNAMI
Da allora l’Italia non ha più avuto un premier scelto dagli elettori. Uno tsunami politico che, per paradosso, ha fatto passare in secondo piano il conto dei soldi: quanto è costata agli italiani l’aggressione ai titoli di Stato, funzionale alla cacciata di Berlusconi? Quel continuo rialzo dei tassi d’interesse quanto ha pesato sul nostro indebitamento? Stiamo pagando ancora per le vicende di quei giorni? Le risposte sono contenute in uno studio pubblicato ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio, organismo guidato dall’economista Giuseppe Pisauro.

Dal punto di visto politico, “Il modello Upb di analisi e previsione della spesa per interessi” – così si chiama il documento – è assolutamente neutrale. Non entra nel merito delle ricostruzioni su ciò che avvenne in quei mesi nelle cancellerie internazionali né sorregge in qualche modo l’ipotesi del “complottone”. Si limita a fare una rigorosa analisi contabile, basata sull’algoritmo che i tecnici dell’ufficio hanno messo a punto nei mesi scorsi. Creato lo strumento, lo hanno usato per fare alcune simulazioni e rispondere a una serie di domande, cominciando proprio da quelle riguardanti l’effetto dell’aumento dei tassi avvenuto nel biennio 2011-2012.

IL MODELLO
Il modello distingue una “fase acuta” della crisi, che inizia nel luglio del 2011 e si chiude nel settembre 2012, dalla fase successiva, che dura sino all’avvio, nel marzo 2015, del programma di Quantitative easing, con il quale la Banca centrale europea ha reso possibile l’acquisto di titoli di Stato da parte delle banche centrali nazionali sul mercato secondario. Tirando le somme, l’Upb calcola che la maggiore spesa connessa con la fase di crisi acuta “sarebbe pari a circa 30,7 miliardi negli anni 2011-16”, mentre quella relativa alla fase precedente alla partenza del programma di “alleggerimento quantitativo” voluto da Mario Draghi “varrebbe circa 16,4 miliardi, per un totale di 47,2 miliardi di spesa aggiuntiva”.

Un conto pesantissimo, che a fine anno dovrà essere rivisto al rialzo. Le conseguenze dell’aumento dei tassi avvenuto durante l’intera crisi, avverte l’Ufficio parlamentare di bilancio, non si sono esaurite e continuano a manifestarsi ancora oggi. “Nel complesso”, si legge nel documento, “l’effetto al 2016 è di circa 7,6 miliardi”. Infatti, nonostante dal 2013 si sia avuta una progressiva riduzione dei tassi all’emissione dei bond italiani, “sulla spesa degli anni successivi continuano ad impattare i titoli a medio-lungo termine emessi a tassi più alti negli anni precedenti”.

Così, al 31 dicembre, la cifra sarà arrivata a sfiorare quota 55 miliardi.

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