Non governano, ma sono potentissime. Non fatturano, ma sono un business. Il sottobosco delle organizzazioni non governative vale milioni di euro e conta su risorse importanti: in Italia le Organizzazioni non governative riconosciute ufficialmente eleggibili per il finanziamento pubblico sono almeno 250 e il «fatturato» totale di quelle registrate supera i 500 milioni di euro.
Come l’associazione Anddos, finita nella bufera per le orge nei circoli gay finanziate dall’Unar e rivelate dalle Iene: dopo lo scandalo, ieri la presidenza del Consiglio ha revocato il finanziamento da 55mila euro annullando l’inserimento in graduatoria.
Gli introiti sono costituiti per il 68% da finanziamenti istituzionali e «solo» per il restante 32% da donazioni di privati e tax payers. Un indotto che ha molto che vedere con il tema dell’occupazione, se si pensa che il 31% degli operatori può contare su contratti a tempo indeterminato e il 38% su collaborazioni a progetto, con una retribuzione che oscilla fra 66mila euro lordi annui (la più alta) e i dieci mila.
Comparando le più recenti top 10 delle Ong classificate per totale di entrate, emerge un aspetto interessante: si scopre che l’altalena dei numeri fa variare, e di molto, le posizioni. Così (ai dati di maggio 2016) Save the Children scala il primo posto, passando da 25 milioni a 66 milioni di euro, Medici senza Frontiere segue con 50 milioni (più dieci), Emergency vede crescere il bilancio a ben 38 milioni di euro (dai 23 precedenti). Ma l’elenco continua, ed è lungo. Dove finiscono, tutti questi fondi pubblici?
La questione è stata sollevata non molto tempo fa, da Gerard Steinberg, che ha dichiarato: «Milioni di euro pagati dai contribuenti italiani sono sperperati ogni anno in favore di un piccolo gruppo di Ong politicizzate che non realizzano obiettivi in particolare». Per esempio, le associazioni anti-Israele: un nutrito gruppo di attivisti che operano per diffondere il verbo della propaganda pro-palestinese, con il beneplacito, tra gli altri del Ministero degli Affari esteri. Quanti sono i soldi dei contribuenti che finiscono a finanziare progetti «umanitari» o di cooperazione dai contorni non sempre trasparenti, è una domanda a cui non c’è ancora una risposta univoca. Spesso, non è noto l’ammontare dei contributi e del costo dei progetti finanziati nel settore delle onlus, né i criteri di selezione per l’assegnazione degli incarichi. Ancora più spesso, accade che gli stessi progetti vengano presentati dalle stesse associazioni, finanziati dagli stessi enti, in anni diversi.
Mentre in altri Paesi, come Stati uniti e Canada, esistono precisi meccanismi di controllo, in Italia il sistema delle Ong non ha mai vincolato i finanziamenti statali sulla base di gare pubbliche né sono fissati criteri specifici che definiscano di qualità e costi dei progetti, soprattutto per le Onlus con i bilanci che pesano di più. Ufficialmente, non vi sono enti indipendenti di controllo e certificazione obbligatori. Una lacuna legislativa che è, a tutti gli effetti, un limbo. La necessità di maggiori controlli è stata auspicata nel luglio 2012 anche dalla Corte dei conti, che ha monitorato 84 progetti in 23 Paesi, trovando di tutto: soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo da anni, rendiconti spariti. In effetti, a rendere pubblici i propri bilanci, o il proprio organigramma, sono per lo più le organizzazioni internazionali, cosa che accade molto più di rado nel no-profit delle piccole associazioni all’italiana.
Incrociando gli open data, per esempio, incuriosisce che la classifica delle dieci ong più «ricche» non corrisponda affatto a quella delle più trasparenti. Discutere delle competenze, dell’operato, degli ambiti d’intervento e del funzionamento generale delle organizzazioni non governative sembra un tabù su cui vige, a tutt’oggi, una specie di silenzio assenso. È lecito sospettare che quello scoperchiato dal caso Unar, coi finanziamenti contro la discriminazione razziale devoluti al sollazzo omosessuale, sia solo un vaso di pandora. Scoperchiarlo, non basta.