di Giovanni Maria Bellu
La domanda-chiave dell’inchiesta sul sequestro omicidio di Giulio Regeni è quando il giovane ricercatore italiano abbia incrociato il mondo di quelli che hanno deciso di ucciderlo. A questa domanda sta tentando di dare una risposta il pubblico ministero Sergio Colaiocco il quale, in occasione del funerale, ha trasferito il suo ufficio nella stazione dei carabinieri di Cervignano, a pochi chilometri da Fiumicello, per sentire come testimoni i colleghi e gli amici di Giulio.
Ma c’era un altro documento prezioso. Un articolo scritto da lui che il Corriere della Sera ha pubblicato domenica scorsa sotto il titolo: “Giulio Regeni, il primo articolo con pseudonimo sul Manifesto”. Un articolo, dunque, diverso da quello – ormai famoso – che il Manifesto aveva pubblicato due giorni prima, il 5 febbraio, all’indomani della notizia del ritrovamento del cadavere.
A leggerlo dopo quanto è successo si resta colpiti. E’ un’analisi lucida e spietata della situazione dei lavoratori in Egitto. Proprio il tema della tesi di dottorato e del pezzo successivo. Di cui sembra quasi la premessa: “Gli attacchi del regime ai lavoratori e alle libertà sindacali – si legge – sono sempre più determinati. È del 28 aprile scorso la notizia di una sentenza dell’Alta corte amministrativa che rende illegale lo sciopero e costringe al pensionamento forzato i lavoratori condannati con questa accusa. Lo scorso 2 giugno, un veicolo militare ha aperto il fuoco su un sit-in di operai che chiedevano un’ambulanza per un compagno ferito sul lavoro, in un cementificio di proprietà dell’esercito ad el-Arish, nel Sinai. L’attacco si è concluso con la tragica morte di un lavoratore e il ferimento di altri tre, e rappresenta un preoccupante segnale del livello di intolleranza dei militari verso le mobilitazioni dei lavoratori”.
L’impostazione è analoga a quella del servizio apparso sul Manifesto il 5 febbraio. Ed è identico uno dei luoghi dove vengono raccolte alcune delle interviste: la sede Centro servizi per sindacati e lavoratori (Ctuws), a pochi passi da piazza Tahrir. Esattamente lo stesso posto dove, l’11 dicembre, si svolse l’assemblea alla quale Regeni dedicò l’ultimo articolo. Non è un fatto di poco conto che Giulio fosse già stato là. E’ una circostanza – viene da pensare – che può anticipare alla fine dell’estate il suo incontro con quel mondo che ha poi deciso di eliminarlo.
Val la pena di fare una verifica. L’articolo pubblicato dal Corriere con la firma di Regeni è, infatti, uno di quelli che erano stati pubblicati sotto pseudonimo, come correttamente chiarisce il titolo. Il Manifesto ha fatto sapere di averli rimossi dal suo sito per ragioni di sicurezza. Anche questo è stato rimosso. Si tratta di vedere se in qualche altro sito che l’aveva ripreso all’epoca ne sia rimasta traccia. Una ricerca banale. E’ sufficiente isolare alcune frasi, copiarle, poi trasferirle in un motore di ricerca. La risposta è immediata. L’articolo c’è ancora. Lo riportano diversi siti. Compare anche in una rassegna stampa dell’Arci datata 3 luglio 2015. Andiamo a cercare lo pseudonimo. Sarà ancora una volta quell’”Antonio Drius” che Giulio utilizzò per l’articolo sull’assemblea sindacale dell11 dicembre? No. E’ diverso. L’articolo è firmato con due nomi e cognomi. Strano pseudonimo. A vederlo parrebbe una normale doppia firma di un articolo scritto assieme da due autori.
Ed è proprio così. Una scoperta sconcertante. I due nomi non sono di fantasia. Si tratta dei nomi di due ricercatori che hanno scritto, ognuno per conto suo, diversi articoli sull’Egitto e sul mondo arabo. Non li riportiamo per scrupolo benché siamo consapevoli che chiunque può fare, o aver già fatto, la stessa nostra facile ricerca. Di certo quell’articolo non è di Giulio Regeni. D’altra parte, sia i familiari, sia i suoi più stretti amici e colleghi, hanno ripetuto fino allo sfinimento che Giulio aveva inviato al Manifesto un solo articolo chiedendo, invano, che fosse pubblicato sotto pseudonimo. Quello apparso il 5 febbraio.
Insomma, l’articolo pubblicato sul Corriere è inutilizzabile per rispondere alla domanda fondamentale. Dobbiamo cancellare tutti i ragionamenti che la sua lettura ci aveva suggerito. Non è vero che Giulio era stato già nella sede del Centro servizi per sindacati e lavoratori. O, se vi era già stato, quell’articolo non lo dimostra. Perché è stato scritto da altri. Abbiamo perso tempo. E il Corriere della Sera – a cui evidentemente quell’articolo è stato dato come di Giulio Regeni – è stato indotto a compiere un errore. D’altra parte, chi avrebbe potuto immaginare che in un momento così delicato qualcuno potesse arrivare fino al punto di spacciare come di Regeni un articolo non suo? Ingannando l’opinione pubblica e dando anche un piccolo contributo a fuorviare un’inchiesta in corso?
Per tentare di capire abbiamo avviato un’altra ricerca sul web. Incrociando alla testata del Corriere le parole “Regeni” e “pseudonimo”. Abbiamo trovato un bell’articolo di Fabrizio Roncone, pubblicato sul Corriere domenica scorsa. E’ il resoconto di una visita nella redazione del Manifesto. Colpisce questo passaggio. “Quanti articoli gli avete pubblicato?”, domanda l’inviato del Corriere al caporedattore Esteri del Manifesto. La risposta: “Tre, compreso quello che abbiamo messo in prima pagina dopo la sua morte. Il primo era scritto a quattro mani, con doppia firma: il suo pseudonimo e il nome e il cognome di un’altra persona. La richiesta di firmare con lo pseudonimo, conoscendo la violenza del regime egiziano, ci è sembrata del tutto comprensibile”. “La madre di Giulio – insiste Fabrizio Roncone – sostiene che suo figlio avrebbe voluto collaborare con voi: e che voi non gli avete dato questa possibilità”. La risposta: “È falso. L’ultimo articolo Giulio lo ha spedito ai primi di gennaio. Ma non siamo riusciti a pubblicarlo subito per ragioni di spazio, nei giornali capita. Il 9 gennaio, Giulio e l’altro che scriveva con lui a doppia firma, mi mandano una email, chiedendo, con garbo, se ci fossero dei problemi. Io gli dico di aver pazienza: l’idea è di pubblicare l’articolo in concomitanza con l’anniversario di piazza Tahrir”. Invece è stato pubblicato – contro il parere della famiglia – solo dopo la morte del ragazzo.
Forse è il caso, finalmente, di fare chiarezza. Nessuno ha tempo da perdere. Specialmente quando si è davanti a un fatto così tragico e a un’inchiesta delicatissima in pieno svolgimento.