È davvero uno tsunami quello che sta accadendo all’Aise di Alberto Manenti, e assume sempre più le caratteristiche di un maxi-repulisti all’interno del servizio segreto militare italiano avvenuto con tanto di imprimatur del premier Matteo Renzi e soprattutto del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Marco Minniti, che ha per delega la vigilanza sugli 007 nazionali.
Sono state infatti 86 le sostituzioni di dirigenti, capo reparto, responsabili di zona avvenute nelle ultime settimane. È stata cambiata quasi tutta la struttura apicale dell’Aise, sia attraverso una rotazione delle poltrone, sia attraverso un ritorno obbligato ai corpi o alle amministrazioni di provenienza. Una girandola di posizioni che avrebbe avuto come elemento scatenante, secondo le indiscrezioni filtrate, la gestione delle operazioni estere sui connazionali rapiti in zone di guerra e la connessa gestione dei fondi riservati che al di là dei possibili riscatti (che tutti negano di parlare) servono comunque a spesare le informazioni e le operazioni di intelligence su quei territori.
Un groviglio di responsabilità difficile da sbrogliare, perché su quel settore sovraintendeva prima ancora dell’arrivo di Manenti (che è stato nominato da Renzi nell’aprile 2014) Nicola Boeri. Con la nuova guida dell’Aise la funzione di Boeri era stata in qualche modo duplicata con la scelta di riportare quel settore a un uomo del nuovo capo del servizio, Giuseppe Bruni. Proprio per questo è difficile ricostruire con certezza l’origine di diverbi e contrasti interni che hanno causato il grande ribaltone in corso (non è detto che la girandola di sostituzioni si fermi qui). Se fino alla scorsa estate Boeri era un dirigente considerato assai preparato, ma non di fiducia di Manenti, e Bruni al contrario era il referente diretto del nuovo direttore dell’Aise che aveva anche il compito di controllare Boeri, il ribaltone appena avvenuto sembra avere mischiato tutte le carte. Boeri è stato sì spostato, ma a guidare il delicato settore analisi al posto di Ester Oliva, rientrata nella amministrazione di appartenenza.
Ad uscire dal servizio segreto con una pensione anticipata è invece Bruni, che era l’uomo di fiducia di Manenti. Si sono invertite le parti? O forse è lì che è scoppiato un contrasto insanabile, risolto con il sollevamento di entrambe le posizioni dalle funzioni ricoperte? Secondo le indiscrezioni, comunque, è su due vicende che quel contrasto sarebbe nato.
La prima, come riferivamo ieri, è la gestione fino alla sua conclusione del rapimento avvenuto in Siria di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Le due ragazze che si erano avventurate clandestinamente in zona di guerra sono state lasciate dai carcerieri dopo una lunga trattativa la cui regia è stata sicuramente dell’Aise. Non molto dopo la conclusione di quel rapimento, sono iniziate a circolare voci sul pagamento di un possibile riscatto, che era stato ipotizzato in 12 milioni di euro. Il governo Renzi, anche per bocca del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha sempre negato questa indiscrezione.
Nel novembre scorso un video della tv araba Al Jazeera, citando anche fonti di intelligence inglesi e americani, ha ricostruito il pagamento di quel riscatto, e anche di quelli che l’Italia avrebbe pagato per ostaggi negli anni passati (fra gli altri il rapimento dello skipper Bruno Pellizzari e della sua fidanzata da parte di pirati somali). In quel video erano apparse immagini di banconote sigillate e raccolte in pile di sei mazzette su un tavolo di ufficio sotto la scritta «Ta Ma Ho» e la data del 7 gennaio 2015. Secondo la ricostruzione quella foto sarebbe stata scattata in un ufficio di Forte Braschi, sede dei servizi italiani. Ed è proprio quel video all’origine della tempesta interna al servizio. Perché la foto era genuina, e non avrebbe dovuto circolare all’esterno.
E non è solo questo il problema: la foto sarebbe stata scattata su richiesta di un esponente apicale dell’Aise per evitare quel che era accaduto in passato: nell’eccessiva segretezza dell’operazione, parte di quelle banconote solitamente si perdevano per strada. E non è mai stato chiaro se finivano nelle mani di improvvisi intermediari o fossero invece state sottratte in modo più “casalingo”. Secondo indiscrezioni attendibili, anche con le banconote lì fotografate, a qualsiasi cosa servissero, alla fine i conti non sarebbero tornati.
Il secondo caso all’origine del ribaltone è quello della gestione di un altro rapimento di connazionali su cui da troppo tempo è sceso il silenzio più assoluto. Si tratta dei quattro tecnici della Bonatti di Parma rapiti in Libia il 19 luglio scorso: Gino Pollicardo, Filippo Calcagno, Salvatore Failla e Fausto Piano. Qui ad essere messa in discussione è la bontà della rete di informazioni dei servizi, che avrebbero seguito per lungo tempo una pista fasulla attivando trattative che ovviamente non hanno portato a nulla. Il caso è molto complesso e poco seguito anche dalla stampa perché si era chiesto assoluto silenzio in una fase che sembrava risolutiva della vicenda, e invece non lo è stata. Certo le informazioni erano più complicate anche grazie alla tensione che c’è sempre stata in questi mesi fra le due Libie. Tanto è che nel novembre scorso Fradj Abu Hachem, portavoce del parlamento di Tobruk, aveva accusato del rapimento Fajir Libya, il raggruppamento di milizie islamiste che aveva conquistato invece il territorio di Tripoli. I quattro in ogni caso erano ancora nelle mani dei rapitori, e a quanto sembra chi all’interno dell’Aise si era occupato della loro liberazione, non è venuto a capo di nulla. E ora non dovrà più occuparsene.
Franco Bechis Libero, mercoledì 3 febbraio 2016