OGGETTO: ‘Salva Banche’ e risparmiatori traditi
Egregio Presidente della Repubblica,
Le scrivo per riportarLe la profonda preoccupazione – e i molteplici danni – che il (cosiddetto) decreto ‘Salva-Banche’ ha prodotto sul territorio ferrarese, a causa dell’inserimento nel provvedimento (senza alcuna motivazione di ordine tecnico o razionale) della Cassa di Risparmio di Ferrara, tra le quattro coinvolte. Una decisione che non è sostenibile sotto nessun punto di vista. La situazione di Carife, al momento dell’intervento ‘a gamba tesa’ del governo, era ben diversa e del tutto peculiare rispetto a quella degli altri istituti coinvolti (Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti). La Cassa di Risparmio di Ferrara, già commissariata, da sei anni era infatti ‘sorvegliata’ da Banca d’Italia, e aveva già deliberato un aumento di capitale di 300milioni di euro (257 voti favorevoli, 6 contrari e 24 astenuti), scelta condivisa dalla stessa vigilanza, nel corso dell’assemblea straordinaria del 30 luglio 2015.
In pieno percorso di risanamento in corso, la decisione del governo si è abbattuta come un fulmine a ciel sereno su migliaia di risparmiatori che, dalla sera alla mattina, si sono visti azzerare il valore delle proprie azioni e obbligazioni subordinate, con un blitz dell’Esecutivo perpetrato in un Consiglio dei ministri lampo, nella domenica del 22 novembre scorso.
Quel decreto ha danneggiato i risparmiatori coinvolti, ha impoverito il territorio tutto e ha generato una allarmante crisi di fiducia complessiva, che sta investendo l’intero settore bancario, aggravata – dal primo gennaio – dall’entrata in vigore del cosiddetto bail in, peraltro già anticipato (con modalità tutte da chiarire) dallo stesso decreto Salva – Banche.
Questa vicenda è tanto oscura quanto preoccupante: la provincia di Ferrara è la più povera dell’Emilia Romagna, ha un tasso di disoccupazione superiore a quello nazionale (13,3%), è stata colpita dal sisma del 2012 (doppio sisma, per la verità, scosse del 20-29 maggio). La crisi Carife – generata dal decreto 183 – è il colpo di grazia per un territorio già enormemente sofferente.
Riteniamo – e Le portiamo i documenti a sostegno delle nostre tesi – che la vicenda Carife-Salva-Banche abbia messo in luce responsabilità gravissime, tanto da parte della vigilanza, quanto da parte del governo. Responsabilità tanto tecniche quanto politiche.
PERCHÉ BANKITALIA NON POTEVA NON SAPERE
Bankitalia negli ultimi 6 anni ha stabilito l’aumento di capitale, deliberato nell’assemblea del 30 luglio scorso, ha messo in vigilanza rafforzata Carife, ha predisposto ispezioni, ha sottoscritto il commissariamento del 2013. Bankitalia non poteva non sapere. Il controllore ha da render conto, visto l’esito funesto del percorso seguito. Per dirla con una metafora, il medico deve spiegare le ragioni per cui il paziente – dopo le sue cure – ha aggravato la sua patologia. Sulla vicenda Carife pende un ricorso al Tar del Lazio contro il commissariamento e contro via Nazionale che potrebbe scompaginare le carte e dare finalmente giustizia ai risparmiatori traditi. L’obiettivo dei ricorrenti è rendere nullo il commissariamento. La sentenza, se favorevole, consentirebbe di ridare una gestione ordinaria alla banca, magari continuando con quel percorso di risanamento che la stessa Bankitalia aveva voluto e seguito, dopo la verifica ispettiva del 2009, da cui erano emerse (a
proposito del fatto che Banca d’Italia sapeva) spregiudicate operazioni di erogazione credito e la fallimentare politica allocativa delle controllate (vedi più oltre).
Nella recente lettera di risposta all’appello dei sindaci del territorio ferrarese – che hanno espresso indignazione e perplessità per le scelte operate da Banca d’Italia e Mef – la stessa Bankitalia non esita ad ammettere (cito testuale): “La situazione della Cassa di Risparmio di Ferrara è stata pregiudicata da scelte strategiche sbagliate poste in essere nello scorso decennio dagli organi della banca e da operazioni di credito che hanno generato perdite rilevanti”. Errori antichi, dunque, che Bankitalia ben conosceva, ma che sono stati fatti pagare ai risparmiatori, dopo che lo Stato aveva deciso di ‘prendere per mano’ la banca, accompagnandola in un percorso di ‘recupero’ durato sei anni e che avrebbe scongiurato il disastro attuale.
Con il Decreto 183 il governo ha inserito tra le banche a rischio un istituto di credito per il quale Bankitalia aveva chiesto e ottenuto l’aumento di capitale, per 150milioni di euro, nel 2011, facendolo deliberare (con tanto di validazione della Consob). Delle due, l’una: o il blitz del governo è ingiustificato (e quindi il presidente del Consiglio ne deve render conto, anche alla luce dei danni prodotti) o Bankitalia ha mal vigilato (e quindi deve risponderne, risarcendo i risparmiatori e gli investitori traditi).
PERCHÉ LA COMMISSIONE D’INCHIESTA È ACQUA FRESCA
Responsabilità che andranno chiarite, ma che non potrà essere una commissione d’inchiesta interna al parlamento (che ha una precisa maggioranza che fa capo al premier) a mettere in luce. Per questo la via giudiziaria è la via maestra.
RICORSO CONTRO IL COMMISSARIAMENTO, SPERANZA DI CHIAREZZA
E in questo il ricorso contro il commissariamento dà nuova linfa alla speranza di ricondurre la vicenda Carife nella chiarezza. La ‘vittoria’ contro gli attori del commissariamento non è per niente scontata, visto che in oltre 60 anni di storia repubblicana mai Bankitalia era stata scalfita da ricorso.
Ma questa volta le condizioni sono diverse: a febbraio 2015 infatti il Consiglio di Stato – supremo organo della giustizia amministrativa – ha annullato il decreto di commissariamento della Popolare di Spoleto. Una decisione che crea un importante precedente. La revoca del commissariamento potrebbe avere effetti politici – le dimissioni di un governo che invece di fare chiarezza ha preferito inserire Carife nel calderone ammazza-risparmi del decreto 183 – ma soprattutto consentirebbe di ottenere giustizia contro un provvedimento sbagliato. Sbagliato perché la decisione di commissariare Carife si basa su indici patrimoniali che non hanno tenuto conto – come è scritto nel ricorso – della cosiddetta fiscalità differita attiva, ossia dei riflessi tributari delle stime di possibile svalutazione del credito, che – se presi in considerazione – farebbero balzare la banca da un patrimonio di vigilanza negativo di 60 milioni a un attivo di 27milioni di euro. Sbagliato perché il Ministero dell’Economia non ha svolto istruttoria sulla proposta di commissariamento proposto da Banca d’Italia, come evidenziato nel ricorso al Tar del Lazio.
FALLIMENTARE INGERENZA DELLO STATO
Il commissariamento – va detto – non ha inoltre sortito gli effetti sperati. Il risultato operativo di Carife ha infatti prodotto segno negativo per 376 milioni di euro durante il periodo 1° gennaio 2013 – 31 marzo 2015, cioè in buona parte del periodo di amministrazione straordinaria.
Numeri che dicono di gestioni quantomeno discutibili e che portano appresso uno storico intriso di gravi errori e inadempienze (sarà la magistratura a far luce). Nel suo passato Carife ha tanto da farsi perdonare, e le inchieste – tuttora aperte – lo dimostrano.
L’ISPEZIONE DI BANKITALIA E I CREDITI SOSPETTI
La prima ispezione di Bankitalia, nel 2009, rileva gravissime inadempienze nell’erogazione del credito. Alcune operazioni pesano come macigni sulle spalle degli allora amministratori capitanati dal presidente Santini, nell’era della dirigenza Murolo: circa 160milioni di euro per progetti immobiliari erogati in buona parte a favore del gruppo milanese Siano, 89 milioni di euro per il gruppo Antica Acqua Pia Marcia (Caltagirone), attivo nel settore immobiliare, portuale, aeroportuale e turistico-ricettivo (oggi in liquidazione e in concordato preventivo), 50 milioni di euro a favore dell’armatore campano Deiulemar.
Il team di ispezione ammette che “il sostegno creditizio (…) è stato in diversi casi accordato a imprese già fortemente indebitate, sottocapitalizzate e con bilanci in perdita”, e che le operazioni sono state condotte in porto in un “quadro di scarsa trasparenza” e – riguardo all’erogazione a favore dei Siano – di “insufficiente informativa resa dall’Esecutivo al Cda sui rilevanti profili di rischiosità (…) connessi all’entità dell’intervento creditizio”. Il pool guidato dalla dottoressa De Pasquale rivela inoltre che “i profili di aletorietà del buon fine dell’operazione e di elevata rischiosità sono talvolta emersi in sede istruttoria, ma ciò non ha impedito l’accoglimento delle istanze”.
I magistrati hanno poi acceso i riflettori su due importanti operazioni immobiliari basate sul ricorso al credito bancario e sull’anticipazione di credito da parte di Carife. Trattasi dei fondi immobiliari ‘chiusi’ denominati Aster (per il progetto di sviluppo immobiliare denominato ‘Santa Monica’) e Calatrava (per il progetto MiLuce), gestiti dalla Vegagest Sgr Spa (poi finita in liquidazione coatta amministrativa). Le operazioni hanno ricevuto nel corso di circa due anni, da maggio 2006 a febbraio 2008, ingenti finanziamenti da parte della Cassa di risparmio di Ferrara, che è arrivata a iscrivere a sofferenza oltre 100 milioni di euro e che ha portato a una ricapitalizzazione di 150 milioni di euro. Nella relazione dei pm titolare dell’indagine (vedi pagina 38 allegata) è scritto che l’ispettore Marisa De Pasquale, parlando dell’operazione Aster-Santa Monica, “ha rappresentato il livello di pericolosità di tale operazione di finanziamento ricorrendo all’espressione ‘poteva far saltare la banca’”.
Nelle recenti motivazioni della sentenza con cui il 25 settembre scorso sono stati in parte assolti e in parte è stata dichiarata la prescrizione per i sette imputati nell’appello bis, la Corte d’Appello di Milano ha confermato che dietro il disastro immobiliare dell’operazione Aster-Santa Monica c’è stata truffa. I giudici rivelano che nel corso del processo sono emersi “elementi gravi, precisi e concordanti” per riconoscere un disegno in danno della banca, “attraverso numerosi artifici consistenti nell’operare continui e stratosferici finanziamenti a favore dei quotisti del fondo Aster, persino ai quotisti uscenti, con pari danno per la banca”.
Esito giudiziario a parte, il dato è che tra incagli e sofferenze nell’operazione Vegagest, Carife ha avuto la triste dote di 160 milioni di perdite.
Dal processo di Milano è emerso che le condotte incriminate sono state portate avanti “fino al 17 dicembre 2007”, data dell’ultimo finanziamento erogato da Carife alle società degli immobiliaristi milanesi.
“Verso il baratro, ignorando ogni allerta”, titolò un quotidiano locale. Bankitalia perché non agì allora col commissariamento, perché aspettò il 2013?
LE ‘COMPROMISSIONI’ AI VERTICI
Ma si registrano altre maxi-erogazioni che avrebbero complicato ulteriormente la situazione dell’istituto di credito, tra cui gli 89milioni di euro andati a Caltagirone (gruppo Acqua Marcia di Roma) e altri 50milioni di euro di cui ha beneficiato la Deiulemar di Torre del Greco. Queste operazioni nel loro complesso superavano oltre la metà del patrimonio di
Carife e finirono poi tutte in default. Non fu forse un caso che – all’indomani di quelle contestazioni – iniziò da Roma una innegabile operazione di pressing sulla banca, che portò all’azzeramento dei vertici. Il dg Murolo se ne andò con una corposa buonuscita di 1milione e 200mila euro, ai quali sommare le cifre di Tfr e la previdenza agevolata (previbank). A Murolo fu assicurato anche uno ‘scudo’ dalle responsabilità, tecnicamente chiamato “clausola di manleva”. Ciò non fermò le inchieste – penali e civili – che si abbatterono sull’allora dg. Dai procedimenti penali a suo carico venne in parte assolto e in parte operò la prescrizione, le cause civili sono ancora in corso. A Murolo si contesta inoltre, sotto il profilo gestionale, la maxi-operazione di acquisizione di istituti di credito e società che – nelle intenzioni – avrebbe dovuto trasformare Carife da piccolo istituto di provincia a grande gruppo bancario. Cariver-Credito Veronese, Banca Farnese, Banca modenese, Banca di Romagna, Popolare di Roma, Banca di Treviso sono finite nell’orbita Carife. Orbita che ha ben presto acquisito – operazione pare caldeggiata dalla stessa Bankitalia – anche la società “Commercio e finanza” Leasing e Factoring di Napoli. Le cronache riportate da alcuni ben informati dicono che fu proprio l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio (indagato per omessa vigilanza e poi dimessosi a fine 2005) a caldeggiare all’ex presidente Alfredo Santini l’operazione Leasing e Factoring, azienda già del Banco di Napoli rimasta da liquidare. Tra Santini e Fazio c’era piena comunanza di fede, che qualcuno ha voluto interpretate anche come ‘comunanza associativa’. Il comune credo prendeva forma in alcune importanti cariche esterne: Santini era figura nota in Vaticano, essendo decorato con il titolo di ‘Gentiluomo di sua Santità”, istituzione che l’attuale Papa, Francesco, ha deciso di abolire.
Nel complesso attorno a Carife si creò così una galassia di satelliti che resero ancora più pachidermica la gestione della banca. Non a caso il nuovo cda – eletto il 27 aprile 2010 e composto da una nutrita rappresentanza dell’eccellenza imprenditoriale del territorio – mise – d’intesa con Bankitalia – la riduzione del perimetro aziendale tra le priorità inserite nel piano di risanamento, e rappresentato dal piano industriale 2011-2014. Non solo. A seguito dell’ispezione disposta dalla stessa Banca d’Italia tra il 2 febbraio e il 29 maggio del 2009 gli ispettori De Pasquale, Arduini, De Luce, Patrignani, Cascione, Balestra, constatarono (cito dal verbale allegato):
“La realizzazione del modello di sviluppo – basato sulla costruzione di un gruppo creditizio finalizzato a presidiare mercati locali con marchi differenti e a fornire servizi finanziari diversificati – non ha, nel complesso, generato valore. Quasi tutte le controllate non hanno ancora raggiunto l’equilibrio economico, talune per l’impatto delle perdite su impieghi generate da una poco accorta politica di inserimento, altre per difficoltà di sviluppare adeguati volumi”.
Quel percorso di risanamento – condiviso dalla stessa Banca d’Italia – è stato bruscamente interrotto da un commissariamento discutibile che – l’esito finale e funesto del ‘Salva-Banche” lo dimostra – non ha portato alcun risultato reale, se non quello di fare piazza pulita degli investimenti, delle speranze e delle promesse fatte a migliaia di azionisti e titolari di obbligazioni subordinate.
SALVAGENTI PRIVATI IGNORATI
Il 23 ottobre 2015, con circa un mese di anticipo dall’infausto decreto 183, la Fondazione Carife, per mano del suo presidente, l’Ingegner Riccardo Maiarelli, indirizzò una lettera al Mef, alla Banca d’Italia e, per conoscenza, al Prof. Salvatore Maccarone, presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi e ai commissari straordinari Carife. In quella missiva Maiarelli annunciava che la Fondazione si era fatta promotrice di un’operazione di ‘scouting’ tra “diversi soggetti potenzialmente interessati ad entrare nel capitale sociale di Carife Spa”. La banca, in quel momento, aveva già deliberato un aumento di capitale di 300milioni di euro, tenuti ‘in sospeso’ dal giudizio della Bce. Maiarelli, a tal riguardo, scriveva:
“Proprio negli ultimi mesi si è proposto un Fondo di investimento anglosassone, che ha espresso interesse ad entrare nella compagine sociale della Banca, con un investimento importante”. Il presidente della Fondazione sottolineò, in particolare, che l’intervento di un fondo privato avrebbe consentito di mettersi al riparo da ogni contestazione (poi
puntualmente sopraggiunta) dell’Unione europea in ordine ai presunti ‘aiuti di Stato’. Ecco l’inciso: “La possibile definizione di un partnerariato con un soggetto di tale natura e dimensioni può presentare più di un profilo di interesse per il futuro di Carife Spa, ma anche, nell’immediato, potrebbe rappresentare una chiara evidenza della natura prettamente privatistica dell’intervento di patrimonializzazione della Banca”. Ebbene, a quella proposta e a quella manifestazione di interesse non fu mai dato alcun seguito – ha più volte lamentato Maiarelli in dichiarazioni pubbliche – dai soggetti destinatari della lettera. Il naufrago aveva a disposizione un salvagente e ha lasciato che venisse trascinato via dalla corrente.
LE ASSURDE CONTESTAZIONI UE
Premesso che il ‘Fondo Interbancario di Tutela di Depositi’ è un consorzio obbligatorio di diritto privato, riconosciuto dalla Banca d’Italia, partecipato obbligatoriamente da tutte le banche italiane, ad eccezione di quelle di credito cooperativo aderenti al Fondo di Garanzia dei Depositanti del Credito Cooperativo. Stante questa la situazione non si capisce come l’intervento del Fitd possa configurarsi – così come contestato dall’Unione Europea – come ‘aiuto di Stato’. Non a caso il presidente del Fitd Salvatore Maccarone, in audizione in Commissione Finanze, alla Camera, il 25 novembre 2015 disse che la posizione della Commissione europea deriva da “un long shot interpretativo che arriva a ritenere pubblico qualcosa che pubblico non è”. Maccarone ha anche evidenziato che l’interpretazione fornita dall’Ue “nasce da una comunicazione della Commissione dell’agosto 2013, che è un atto atipico”. Una comunicazione informale ha valore normativo praticamente nullo e non può essere la base di una valutazione così delicata e decisiva.
Ma c’è di più. Il 9 dicembre 2015 in Commissione Finanze arrivava il Capo del dipartimento ‘Vigilanza bancaria e finanziaria’ della Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo. Questi, parlando del Fitd e delle contestazioni europee, disse:
“L’intervento del Fitd avrebbe consentito, congiuntamente alle risorse apportate da altre banche, di porre i presupposti per il superamento delle crisi, senza alcun sacrificio per i creditori delle quattro banche. Ciò non è stato possibile per la preclusione manifestata da uffici della Commissione Europea, da noi non condivisa, che hanno ritenuto di assimilare ad aiuti di Stato gli interventi del Fondo di tutela dei depositi”. Ma da quando uffici hanno potere impositivo su un governo nazionale? E in che modo questi fantomatici ‘uffici’ hanno dato comunicazione all’Esecutivo del loro diniego all’intervento del Fondo? Chiediamo che sia resa pubblica e trasparente la corrispondenza tra gli ‘uffici’ e il governo.
Le dichiarazioni di Barbagallo, anziché fugare i dubbi, li fanno montare. Un altro passaggio che scatena domande è il seguente:
“Per coprire le perdite ascritte alle quattro banche è stato necessario ricorrere alle risorse del Fondo di Risoluzione, finanziato dalle banche italiane . Le perdite sono state rilevate secondo la metodologia imposta di fatto dalla Commissione Europea, che richiede che la valutazione delle sofferenze sia effettuata assumendo come indicatori i prezzi presumibili in caso di immediata cessione sul mercato, anziché valori coerenti con le ordinarie prassi contabili, che tengono conto della ‘capienza’ delle garanzie e della presumibile durata delle procedure di recupero”.
Uffici che ‘dettano legge’ al governo e che usano regole quasi ‘soggettive’ per decidere il destino di migliaia di risparmiatori: un paradosso, una follia.
CARIFE IN BANKITALIA, UN TESORO NASCOSTO E INESPLORATO. UNA SPERANZA DALLA RIVALUTAZIONE
C’è poi un’altra questione inaffrontata, che – al di là dei tecnicismi – potrebbe essere una delle chiavi di volta per scongiurare soluzioni invasive e ammazza-credito per il rilancio della banca, come – ahinoi – quelle adottate.
La Carife ha in portafoglio lo 0,33 % del capitale di Banca d’Italia. Questo sino all’anno scorso era in bilancio al valor nominale, che era quello del 1934, così come per tutte le banche che ne avevano in dote, in quanto, a differenza di quanto accade per le “normali” partecipazioni, la Banca d’Italia dispone di una norma legislativa che ne vincola la modifica da parte dei possessori ad una disposizione specifica di legge. L’anno scorso, il governo in cerca di quattrini, fece di corsa in sede di legge di Stabilità una norma che mancava dal 1935 e che adeguava il valore dell’attivo di queste quote di partecipazione, applicando al plus valore realizzato (valore nominale meno valore in quota del valore rivalutato) una sorta di cedolare secca a carico delle banche interessate del 20%.
Il valore rivalutato fu determinato da un pool di professori universitari e di esperti.
Si tratta di un valore importante, ma con ancora grandissimi spazi per una rivalutazione rapportata alla quota posseduta di patrimonio netto di Banca d’Italia.
Nel caso di Carife, qualora si potesse applicare il valore della quota corrispondente di patrimonio netto desunto dall’ultimo bilancio di Banca d’Italia, si attesterebbe a 319.500.000 euro. La cifra, notevole, sarebbe utilizzabile in presenza di una semplice norma ad hoc, e sarebbe in grado di sostenere contabilmente e finanziariamente operazioni di corposa entità, comprese quelle di salvataggio.
L’OMBRA DELL’ INCOSTITUZIONALITÀ
Il governo Renzi ha fatto fallire una banca per decreto, ha messo in ginocchio un intero patrimonio, ha cancellato una storia bancaria di 180 anni, azzerando anche quello della Fondazione Carife, prezioso scrigno che in questi anni ha garantito investimenti e opere nei settori, tra le altre cose, dello sviluppo economico, del sociale e della cultura.
Se passa il concetto che dalla sera alla mattina anni di risparmi, investimenti tramandati da generazioni possono essere ‘fatti fuori’ per decreto, diventa un problema economico e democratico. Per questo invochiamo il Suo intervento, Presidente Mattarella.
Se le banche smettono di essere le custodi dei risparmi e diventano la prima insidia da cui guardarsi, si generano conseguenze preoccupanti. Il rischio – aggravato dall’entrata in vigore del bail in – è la fuga del credito, il sospetto generalizzato, la crisi di fiducia, complessiva, nell’intero sistema economico. Una calamità per un Paese già provato dalla crisi e che sta faticosamente cercando di darsi nuove motivazioni per ripartire e nuova fiducia nel futuro. Il Salva Banche ha minato alla base la credibilità dell’intero sistema. Se è vero che le sofferenze bancarie, in Italia, ammontano a oltre 200miliardi, si configura la possibilità di una fuga collettiva dal sistema creditizio e, ahinoi, dal Paese.
Con un Consiglio dei ministri convocato di domenica e durato pochi minuti si sono azzerati milioni di euro di investimenti. Non c’è solo un tremendo paradosso e un fitto alone di mistero attorno a questa mossa, c’è la piena violazione del dettato Costituzionale che stabilisce, all’articolo 42, che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge e che la stessa può essere sì espropriata (per motivi di interesse generale), ma solo salvo indennizzo.
All’articolo 47 è scritto che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme” e che “favorisce l’accesso” dei cittadini al “diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese”. Il decreto 183, per forma e contenuti, cozza contro quanto qui scritto. Se la Costituzione – voluta e conquistata dai nostri Padri – ha un valore, è dovere di tutti noi fare tutto il possibile affinché questo valore sia affermato, assicurandone il rispetto.
I ‘PERCHÉ’ DA CHIARIRE
– Perché Carife – già dichiarata salva da Bankitalia – come esposto in assemblea straordinaria del 30 luglio 2015 – e inserita in un percorso di risanamento – è stata improvvisamente giudicata a rischio e inserita nel calderone delle altre tre banche del decreto 183 (Marche, Carichieti, Etruria)? Carife, lo sottolineiamo con forza, è in posizione del tutto peculiare rispetto alle altre banche: era già in fase di risanamento, con aumento di capitale già deliberato.
– Perché non è stata valutata la palese incostituzionalità del provvedimento?
– Sotto il profilo politico, perché il ministro ferrarese Franceschini nulla ha eccepito sul decreto 183, nonostante l’evidente peculiarità di banca Carife?
– Perchè la fiscalità differita attiva non è stata applicata nel 2012 dagli ispettori di Banca d’Italia e posta a base della proposta di commissariamento che avrebbe scongiurato lo stesso (facendo passare il patrimonio di vigilanza da -60 milioni a +27,5 milioni di euro)?
– Perché mai non sono state prese in considerazione le manifestazioni di interesse arrivate in questi anni dai privati, a più riprese avanzate, come testimoniano anche le dichiarazioni del presidente della Fondazione Carife Riccardo Maiarelli?
– Come si può qualificare ‘Aiuto di Stato’ un fondo mutualistico tra banche, come è, appunto, il Fondo Interbancario? Perché, a questo riguardo, l’aumento di capitale attinto dal Fondo interbancario si configurerebbe – per l’Ue – come ‘aiuto di Stato’ e il fondo di solidarietà – attinto dal medesimo fondo – non lo sarebbe?
– Perché si è indebitamente anticipato il bail in (la nuova normativa europea sui salvataggi bancari) entrato in vigore solo quest’anno?
– Perché Bankitalia – che ha la responsabilità della vigilanza e che ha indirizzato e condiviso passo passo le scelte degli amministratori degli ultimi anni – non è oggi chiamata a rispondere di niente mentre a rimetterci saranno i piccoli risparmiatori?
– Perché non è stata in alcun modo tenuta in considerazione la possibilità di agire per via legislativa consentendo a Carife di applicare la quota di patrimonio netto di Bankitalia, alla luce della partecipazione dello 0,33% che ha in essere?
– Perché questa umiliante sottomissione a Bruxelles che palesa colpe politiche gravissime, che configurano un tradimento del governo a danno della sua gente? C’è stato uno ‘scambio’ tra Salva-Banche e flessibilità sulla Legge di Stabilità?
Confidando in una Sua risposta e in un Suo intervento Le porgo cordiali saluti e rimango a disposizione
Alan Fabbri (Capogruppo Lega Nord Regione Emilia Romagna)