di Giovanni Caprara
1 dic – La linea generale tenuta dalle democrazie occidentali in materia di riscatto per la liberazione degli ostaggi è quella di evitare l’esborso economico. Ne è eccezione l’Italia, con riferimento particolare al caso di Federico Motka: quando un cittadino viene rapito all’estero, l’Unità di crisi della Farnesina attiva immediatamente i consulenti dell’ambasciata più vicina al luogo in cui è avvenuto il sequestro.
Dal momento della segnalazione del rapimento di Motka, gli uomini dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, hanno attivato i contatti con fonti ed informatori locali per scoprire le modalità del sequestro e le eventuali richieste dei rapitori. I servizi italiani hanno chiesto ed ottenuto l’aiuto del servizio segreto turco per il pagamento del riscatto. Infatti, sono stati gli stessi uomini dell’intelligence turca a consegnare materialmente i contanti in cambio dell’ostaggio italiano, come già avvenuto per Domenico Quirico. I servizi hanno stanziato dal budget coperto dal segreto di Stato 6 milioni di euro. Soldi traghettati dall’intelligence dalla Banca d’Italia fino agli intermediari turchi.
E’ da sottolineare che l’operazione è del tutto lecita. Difatti, alla voce “spese riservate” del bilancio Aise, è contemplato lo stanziamento straordinario di ingenti quantità di denaro, utilizzati per la sicurezza dei cittadini all’estero. Il denaro è stato affidato ai turchi del Mit, i quali lo hanno materialmente consegnato ai miliziani che detenevano Motka.
La finalità di non trattare con i terroristi è principalmente quella di evitare il finanziamento delle fazioni estremistiche, ma in questo caso, come anche nei precedenti, i soldi sono serviti per implementare le risorse dell’Isis.
Il contributo italiano, involontario ma non per questo giustificabile, nell’incremento delle capacità del Califfato, è sempre responsabilità dei servizi segreti.
Infatti l’Aise, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, ha addestrato miliziani islamisti sunniti che, nei mesi successivi, sono passati con lo Stato Islamico o ne sono diventati fiancheggiatori e simpatizzanti, portando a corredo armi ed addestramento (1).
Nel tentativo di rovesciare il regime di al-Assad, furono inviati due team dell’Aise in altrettanti campi di addestramento, uno in Giordania e l’altro in Turchia. Il loro l’incarico era quello di fornire sostegno alle formazioni moderate che si contrapponevano al Governo siriano.
Ufficialmente l’Italia avrebbe fornito “aiuti militari non letali” al frammentato fronte dell’opposizione armata siriana, ossia assistenza tecnica, formazione ed addestramento. I due team composti da dodici agenti, sei in Turchia e sei in Giordania, hanno addestrato i miliziani sunniti con una turnazione senza soluzione di continuità: 12 agenti per 30-40 giorni sul campo che poi rientravano in Italia per essere sostituiti da un secondo staff di egual numero.
Lo Stato Islamico è cresciuto sia in uomini che mezzi, incorporando nelle sue fila gran parte delle formazioni sunnite. Tra questi, in molti erano passati per i campi di addestramento dove avevano operato come istruttori e consiglieri gli agenti segreti italiani.
Di fatto, il sedicente amico, si è trasformato nel peggior nemico, dunque, i decision makers italiani (ma anche di altri paesi come Usa, Qatar, Turchia ed altri paesi europei) hanno la responsabilità di non aver previsto le capacità di crescita dell’esercito islamico e di aver sottovalutato il senso di frustrazione delle comunità sunnite, soprattutto in Iraq, contro il governo a guida sciita.
Proprio l’appoggio di quelle tribù è risultato decisivo per il salto di qualità dell’Isis.
Un ulteriore aspetto della scarsa capacità predittiva dell’Aise, è in una lettera recapitata ai vertici dei servizi italiani dai curdi, nella quale si accennava ad Abu Bakr al-Baghdadi come leader di una temibile fazione eversiva in continua evoluzione, talmente pericolosa da potersi tramutare in un futuro temibile pericolo.
Quale sia stato l’esito dell’allarme curdo non è trapelato, ma nel contempo l’ Isis si è trasformata in una minaccia globale. Tra le probabili conseguenze a tale condizione, è la possibile emulazione di atti anti occidentali ad opera di cellule dormienti affiliate al Califfato, ma residenti in Europa e Stati Uniti, le quali potrebbero mettere in atto azioni terroristiche non pianificate dalla governance centrale dell’Isis, attacchi che tecnicamente sono definiti come atomizzazione dell’eversione.
La prevenzione in questo caso è più complicata, perché gli obiettivi sono imprevedibili. Lo Stato Islamico tende ad una unificazione del mondo musulmano per imporre la supremazia sunnita sugli sciiti e sui cristiani, pertanto, lo stesso Pontefice è un possibile obiettivo, e sembra che un attentato sia già stato pianificato: l’attacco dovrebbe essere compiuto con un drone, forse durante una delle tante apparizioni pubbliche di Bergoglio, il quale non rinuncia mai ad abbracciare i fedeli.
Diceva il ministro degli Esteri iraniano Mohamad Javad Zarif all’assemblea generale dell’Onu: “L’Isis è un Frankenstein tornato a divorare i suoi creatori”. E forse non aveva tutti i torti.
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Il governo striglia gli 007: abbiamo addestrato gli assassini (26 agosto 2014)
La riunione non è ancora stata formalizzata, ma entro i prossimi giorni il presidente del Consiglio Matteo Renzi convocherà a palazzo Chigi i vertici dei servizi e le principali autorità istituzionali della sicurezza per fare il punto sia sulla crisi siriano-irachena che su quella libica e sulle conseguenze dirette che possono avere sull’Italia (immigrazione e innalzamento livelli si sicurezza per rischio attentati). Il vertice è comunque stato preparato da numerosi colloqui e incontri del premier italiano con esponenti politici e militari e dalla lettura di un dossier sulla situazione aggiornata nell’area di guerra. Documentazione che non avrebbe lasciato per nulla tranquillo Renzi, specialmente per la scheda descrittiva sulla situazione dell’intelligence italiano nelle aree calde della guerra.
Secondo alcune indiscrezioni filtrate dal governo ci sarebbe una certa irritazione per il tardivo apprendimento di alcune operazioni di intelligence sia nella zona siriana che in quella libica, e anche per una sottovalutazione da parte dell’Aise di quel che stava avvenendo a Tripoli e Bengasi.
Ma il caso che più preoccupa il governo è stata la scelta dei servizi segreti italiani durante il 2013 di seguire acriticamente senza che risulti né autorizzazione preventiva né adeguata informativa le direttive di altri servizi- soprattutto quelli americani– nell’area siriana. Un particolare sembra inquietare il governo in questo momento: la scelta dell’intelligence italiana, che in quell’area calda aveva una struttura già depotenziata da qualche anno, sarebbe stata quella di aiutare in ogni modo il fermento della rivolta nei confronti del presidente siriano Bashar al Assad. La linea certo è stata simile a quella di altri servizi occidentali, e le operazioni sul territorio non dissimili da quelle scelte dagli stessi americani. Dall’Italia secondo la ricostruzione che si sta ultimando proprio in queste ore sarebbero partiti addestratori militari specializzati nelle tecniche di guerriglia destinati in particolare a due campi organizzati, uno in territorio turco e l’altro ai confini della Giordania.
Lì sarebbero stati addestrati proprio dagli italiani alcuni combattenti – anche miliziani qaedisti- che successivamente sono andati ad ingrossare le fila dell’Isis, rendendosi protagonisti anche di alcune azioni (come i rapimenti) di cui sono stati vittima cittadini occidentali, e perfino italiani. Un errore strategico (visti gli avvenimenti successivi) di questo tipo è stato compiuto dagli stessi americani, con una differenza tecnica non da poco: per ogni miliziano addestrato gli americani hanno raccolto i dati biometrici (impronte digitali, dna, iride etc…), l’intelligence italiana no. Con il risultato che gli americani hanno tracciato i miliziani da loro addestrati, e quindi sono in grado di rintracciarli e identificarli. Gli italiani no.
Anche se la scelta è precedente alla formazione del suo governo, sembra che Renzi non la condivida affatto al di là delle conseguenze grottesche che potrebbero venirne. Per questo il premier avrebbe intenzione di dare una sterzata ai servizi, chiedendo un deciso cambio di linee strategiche per farli tornare a quella attività di prevenzione che è stata particolarmente utile nell’area nel decennio passato, e chiedendo loro di abbandonare questo tipo di protagonismo che rischia di essere assai dannoso.
di Chris Bonface per Libero