Marcello Minenna
La moneta incompiuta
Casa editrice Ediesse
Sono ormai passati più di cinque anni dall’inizio della grande crisi finanziaria internazionale ed il bombardamento mediatico di concetti complessi ed astratti, lontani dall’esperienza quotidiana del cittadino, non ha aiutato certo la comprensione di quello che sta realmente accadendo, lasciando spazi alle più differenti e spesso semplicistiche se non errate interpretazioni. Questo lavoro nasce dunque dall’esigenza profonda di rendere comprensibile ai cittadini il mondo in cui stanno vivendo in quanto solo una migliore consapevolezza può aiutare il sistema democratico ad orientarsi verso una reale soluzione dei problemi.
Ph.D. e master in Finanza matematica presso l’Università di Brescia e la Columbia University di New York, Marcello Minenna è laureato in economia alla «Bocconi», dove insegna Finanza quantitativa, e tiene corsi sui derivati per l’industria nelle principali piazze finanziarie mondiali.
INTERVISTA A MARCELLO MINENNA, VENERDI’ 26 SETTEMBRE 2014 (a cura di Luca Balduzzi)
L’introduzione di una moneta comune per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, sotto la responsabilità di un istituto bancario comune, era veramente il solo primo passo possibile verso quella successiva unione anche politica (gli “Stati uniti d’Europa”) immaginata già da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli fin dal Manifesto di Ventotene del giugno del 1941?
è ben noto dalla letteratura economica degli anni ’60 (penso allo splendido lavoro di Mundell sulle aree valutarie ottimali) che l’Unione Europea non aveva tutti i requisiti tecnici per adottare una moneta unica; per la verità io aggiungerei che ne aveva ben pochi. Per oltre 30 anni fior di economisti e premi Nobel hanno evidenziato con chiarezza per le economie dei Paesi europei i rischi connessi all’ancorarsi ad un cambio perennemente fisso, rinunciando al contempo al controllo della politica monetaria. Penso alle lungimiranti riflessioni di Caffè negli anni ’60 o a quanto mi diceva Luigi Spaventa sulla problematicità di un’entrata nell’euro o alla distaccata analisi di Kaldor del rapporto Werner nel 1971 (il primo progetto di Unione monetaria). Credo si sfondi una porta aperta nel constatare che la decisione di procedere verso un’area valutaria comune fu di natura squisitamente politica, e solo ammantata di una giustificazione “tecnica”. Lo stesso Romano Prodi peraltro ha affermato che “bisognava partire dalla moneta, perché altrimenti i governi europei erano troppo litigiosi e non avrebbero fatto nulla”.
Da un punto di vista razionale, dunque, sicuramente la moneta unica doveva arrivare dopo una serie di riforme strutturali in grado di armonizzare ampiamente le politiche fiscali dei Paesi membri, nella prospettiva di costruire un sistema minimo di trasferimenti. Ma sulla praticabilità politica di questi interventi nel contesto storico degli anni ’60-70-80 (si pensi solo al background della Guerra Fredda), sono tutt’ora molto scettico.
Nel nostro paese, la ratifica del Trattato di Maastricht del 1992 non è stata accompagnata dallo stesso dibattito, politico e non, che ha tenuto banco in altri paesi (Danimarca e Gran Bretagna su tutti)… avremmo dovuto procedere con una cautela maggiore, chiedendo anche noi ulteriori garanzie? Quali, per esempio?
Il nostro Paese è sempre stato fortemente europeista. Nel 1992, nel vortice della crisi valutaria che portò la lira fuori dallo SME e con l’esplosione del fenomeno di “Mani Pulite”, la ratifica del Trattato apparve come un’importante conferma della volontà del Paese di rimanere ancorato ai valori ed ai principi che hanno fondato l’Unione Europea. L’Italia ratificò la propria volontà di non voler “deragliare”. Senza dubbio, sull’onda dell’emotività, non ci fu un’attenta valutazione dell’impatto di quelle “clausole numeriche”, quali il famigerato rapporto del 60% Debito/PIL e del 3% Deficit/PIL che avrebbero in seguito condizionato fortemente la politica fiscale del governo italiano.
Tuttavia, non sono le soglie di Maastricht il principale problema che attanaglia l’Unione monetaria.
Il principale difetto dell’Euro sta nell’impossibilità di riequilibrio dei flussi commerciali e finanziari tra i vari Paesi membri, a causa del cambio fisso tra le vecchie valute. Mi spiego meglio. Si considerino l’Italia e la Germania nel contesto pre-euro. Se per cause esogene (un aumento della produttività o dell’inflazione in uno dei due Paesi) la Germania dovesse esportare di più verso l’Italia o importare meno, si produrrebbe un surplus delle partite correnti. La presenza di questo surplus causerebbe un aumento della domanda di marchi tedeschi sul mercato valutario e questo aumenterebbe il prezzo relativo del marco rispetto alla lira. Il marco cioè si rivaluterebbe, rendendo le esportazioni verso l’Italia più difficoltose e le importazioni più convenienti, eliminando dunque le determinanti del surplus delle partite correnti. Il sistema tende dunque a stabilizzarsi automaticamente, eliminando gli squilibri commerciali e finanziari con l’estero. Se il cambio tra le due valute è fissato invece, questo riequilibrio non è possibile; il marco tedesco non può rivalutarsi e gli squilibri non vengono corretti ma si accumulano nel tempo. La crescita del surplus commerciale della Germania verso l’Italia deve essere finanziata in qualche modo e questo comporta necessariamente un aumento del debito privato degli operatori finanziari italiani verso il sistema bancario tedesco.
L’impossibilità di riequilibrio dei flussi finanziari e commerciali era anche una caratteristica dell’accordo valutario di Bretton Woods, che saltò nel 1971 per l’accumulo da parte degli USA di enormi deficit commerciali nei confronti di Europa e Giappone. Keynes era perfettamente consapevole di questo difetto del sistema monetario internazionale e già nel 1944 (!) propose l’inserimento all’interno dell’accordo della c.d. “clausola della valuta scarsa”, che attribuiva ai Paesi in deficit persistente (nel nostro esempio, l’Italia) il diritto di adottare pratiche protezionistiche (i.e. dazi doganali) nei confronti dei Paesi in surplus (nel nostro esempio, la Germania) che non cooperassero al fine di un contenimento degli squilibri. Una maggiore consapevolezza del funzionamento del sistema monetario europeo avrebbe potuto spingere i nostri governi verso l’inserimento di una clausola di salvaguardia che potesse ottenere effetti similari, pur all’interno della cornice del libero movimento di merci e capitali stabilita dai Trattati.
Secondo alcuni, ben prima della crisi economica e finanziaria del 2008, già l’introduzione di parametri di convergenza identici per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, così differenti fra loro in termini di debito pubblico, prodotto interno lordo e tasso d’inflazione, avrebbe contribuito a rallentare lo sviluppo di alcuni paesi e ad alterare/rovesciare equilibri…
E’ esattamente così. Nel 1992 la media del debito pubblico europeo rispetto al PIL era del 60% (uno dei parametri di Maastricht), ma mediava situazioni assai differenti, come la Germania al 40% o l’Italia al 120%. Il nostro Paese era dunque “tecnicamente” fuori dai parametri, ma venne comunque ammesso per le solite ragioni politiche: la Germania non avrebbe accettato di far competere il proprio sistema industriale contro una lira debole rispetto al futuro Euro.
Allo stesso tempo i differenziali di inflazione erano elevati; tutta l’Europa aveva tassi di inflazione consistentemente più alti di quelli tedeschi. In genere quando in un Paese si sperimenta un’inflazione alta, i tassi di interesse tendono ad essere più elevati, altrimenti i capitali migrano verso l’estero per sfuggire all’erosione del valore nominale causata dall’inflazione. La decisione politica di realizzare l’Unione monetaria entro il 1999 mise in moto una convergenza puramente finanziaria (attraverso i c.d. convergence trades) dei tassi di interesse dell’Eurozona verso quelli della Germania. I mercati finanziari scommettevano sull’Unione europea. Questo comportò necessariamente delle conseguenze: nei Paesi che avevano subìto i maggiori ribassi (Italia, Grecia, Spagna) di tassi di interesse, i differenziali di inflazione restarono elevati ma i capitali non avevano convenienza a migrare verso il resto dell’Eurozona per l’uniformità della struttura a termine dei tassi di interesse. Pertanto ci fu un’enorme spostamento di flussi finanziari verso le attività reali (gli immobili) che erano protetti dal tasso di inflazione; questo shift imponente fece impennare i prezzi ed innescò i fenomeni di bolla immobiliare che hanno portato prima forte crescita economica, e poi con l’inevitabile scoppio, devastazione soprattutto in Irlanda e Spagna.
Ma non finisce qui. Una maggiore inflazione implica anche una valuta più debole; quasi tutti i Paesi adottando la struttura a termine dei tassi di interesse della Germania, conobbero una rivalutazione sostanziale delle proprie valute. Passando dalla lira all’Euro, l’Italia passò ad una valuta più forte di oltre il 6%, la Spagna del 10%: questo spinse un forte aumento delle importazioni (soprattutto dalla Germania) ed una crescente difficoltà ad esportare. Tutta l’Eurozona dal 1999 andò in deficit commerciale. Solo la Germania, che prima era in deficit passò in forte saldo positivo. Questa situazione è continuata ed anzi si è amplificata anche durante la crisi finanziaria, fino al 2012 perché all’inflazione si è aggiunto lo spread.
Infine, il debito pubblico. Piccoli paesi come Grecia e Portogallo si ritrovarono con un costo del debito pubblico tedesco (intorno al 4%) quando fino a pochi anni prima dovevano finanziarsi sul mercati a tassi di interesse del 20-30%. Questo comportò un irresistibile incentivo ad indebitarsi per utilizzare la leva fiscale a fini espansivi. Ad esempio in Grecia, il settore pubblico conobbe un’imponente espansione, contribuendo alla crescita del PIL ed al “miracolo greco” (la crescita del debito finanziò ad esempio le Olimpiadi del 2004).
Molte mine dunque erano innescate in Europa fin dal 2007, pronte ad esplodere alla prima occasione.
Quanto questa situazione ha contribuito ad aggravare le conseguenze che la crisi ha avuto su alcuni paesi, e sull’Europa in generale?
Nella prima fase (2007-2008) l’effetto della crisi si è scaricato maggiormente negli USA, dove l’effetto dirompente della polverizzazione del valore di ABS, RMBS e la caduta a picco dei prezzi immobiliari ha provocato una recessione molto seria. A prescindere dalle evoluzioni delle bolle immobiliari irlandese e spagnola, che erano già in ridimensionamento dal 2006 e stavano portando problemi ai sistemi bancari nei due Paesi, l’Europa è stata sostanzialmente protetta dalla crisi fino al fallimento di Lehman Brothers (15.09.2008).
L’evento Lehman è uno spartiacque perché ha cambiato il market consensus sul rischio di credito: fino al 2008 il rischio di credito dei Paesi europei non era semplicemente misurato. Il fallimento della banca d’affari americana ha fatto comprendere al mercato che gli eventi estremi, anche se poco probabili, possono avvenire e provocare sconquassi. Dal 2009 il mercato inizia dunque a quantificare le differenze strutturali tra i Paesi europei (in relazione prima di tutto al debito pubblico) e a trasmetterle sul mercato secondario dei titoli di stato: nasce così il famigerato spread, che poi esploderà nel 2010 in connessione con la crisi del debito greco.
è stato il cambiamento del market consensus sul rischio di credito dunque, più che l’esplosione della bolla immobiliare e dei titoli strutturati, che ha messo in crisi il già dissestato sistema europeo. Lo spread ha innalzato i costi di finanziamento dei governi con un più alto indebitamento (quali l’Italia) e ha peggiorato la posizione competitiva delle economie, innescando il secondo -e più letale- round della crisi: il coinvolgimento di Italia e Spagna nel luglio 2011 con la relativa perdita di fiducia sulla solvibilità dei due Paesi.
Certo, se la BCE avesse avuto il suo ruolo –naturale- di prestatore di ultima istanza, non ci sarebbe stata nessuna crisi di fiducia sul debito. I limiti strutturali dell’azione della BCE purtroppo non consentono di sostenere il debito dei Paesi dell’Eurozona, se non con interventi di supporto temporaneo che hanno un costo in termini di interessi. A fronte dell’inazione della BCE, gli Stati sotto pressione hanno potuto cercare di tranquillizzare i creditori del debito pubblico e privato in un solo modo: aumentando la pressione fiscale e tagliando la spesa pubblica in una classica manovra restrittiva che aumenta il surplus primario (che va a pagare gli interessi sul debito pubblico in crescita) e riduce il deficit commerciale (si pagano i debiti privati). Lo stesso Monti ammise che il suo ruolo nel 2011-2012 fu quello di “favorire la distruzione della domanda interna per incentivare un riallineamento competitivo del Paese”. Peccato che la conseguente recessione da austerity abbia inferto un colpo molto forte al sistema industriale italiano e la competitività ha continuato a peggiorare.
Aumenta ogni giorno di più il numero delle persone che invoca l’uscita del proprio paese dalla moneta comune, per potere ristabilire la propria sovranità monetaria e bancaria… una scelta di questo genere sarebbe veramente possibile?
È una scelta che ha parecchi costi, per via del fatto che non è stata prevista nei Trattati una way-out ordinata dal progetto Euro. Quando si parla dunque di possibile caos a seguito dell’abbandono della moneta unica, con mercati in subbuglio, impossibilità da parte del governo di accedere ai mercati internazionali dei capitali, gravi ripercussioni sulla credibilità del Paese, rischio di parziale interruzione del commercio con l’estero, i rischi nel breve termine sono reali e tangibili.
Per quanto riguarda il medio-lungo periodo, c’è da discutere: c’è chi ritiene che la svalutazione della nuova lira che inevitabilmente seguirebbe, otterrebbe solo il risultato di dimezzare la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, far crescere l’inflazione e mandare in quasi default il sistema bancario in quanto il debito pubblico è stato nazionalizzato e quindi una sua ristrutturazione abbatterebbe il valore degli attivi delle banche. Una quota crescente di economisti sostiene invece che il recupero della sovranità monetaria permetterebbe di ammortizzare questi problemi, mentre l’industria nazionale potrebbe recuperare spazi rispetto alla domanda interna ed estera, rilanciando con decisione il PIL.
Di sicuro, i costi di un’uscita dall’Euro vanno valutati comparativamente con i costi che derivano dal rimanere nell’Euro a queste condizioni. Dal 2011 in poi, questi sono cresciuti a dismisura (il PIL nominale sarà quest’anno alla terza riduzione consecutiva, fenomeno storicamente avvenuto soltanto negli anni 1940-1945), e saranno ulteriormente in crescita, se il governo deciderà di rispettare le assurde condizioni del Fiscal Compact. La spirale recessiva non si arresterà, rendendo di conseguenza l’opzione di uscita dall’Euro più sopportabile in prospettiva.
Secondo alcuni (l’ex presidente della Confindustria tedesca Hans-Olof Henkel, l’economista George Soros, ecc.), una strada differente da percorrere potrebbe essere quella della separazione dell’euro in due…
Di Euro a due velocità si parla da diverso tempo. A livello astratto, la proposta ha dei risvolti validi in quanto consentirebbe di sganciare l’area core che fa capo alla Germania dall’Europa mediterranea, consentendo una rivalutazione dell’”Euro-nord” in grado di frenare l’indiscriminato vendor financing tedesco -cioè il finanziamento da parte delle banche della Germania della domanda dei Paesi del Sud di produzione manifatturiera tedesca- che sta annientando l’industria manifatturiera dell’Europa del Sud. C’è da capire come si comporterebbero poi le due Europe, di quali banche centrali si doterebbero, quali politiche fiscali e monetarie perseguirebbero. La BCE-Sud cambierebbe statuto e consentirebbe la monetizzazione dei deficit? I Paesi del Sud opterebbero per l’unione fiscale e l’emissione di Eurobond-Sud? Quale credibilità avrebbero sui mercati internazionali queste istituzioni e queste politiche?
Di sicuro sarebbe la fine del progetto europeo così com’è stato concepito negli ultimi 50 anni e l’avvio di qualcosa completamente nuovo, ed inesplorato. Con tutte le incognite relative.