Andrea Minuz e Guido Vitiello (a cura di)
La Shoah nel cinema italiano
Casa editrice Rubbettino
Nel 2013 l’Italia non ha ancora un museo della Shoah. Nonostante i ripetuti proclami della politica, manca tuttora un’istituzione nazionale che, al pari di quel che avviene nel resto d’Europa, racconti attraverso la lente d’ingrandimento delle vicende italiane la storia dello sterminio degli ebrei d’Europa. La memoria, nel nostro paese, ha seguito altre vie, molte delle quali sono passate per la narrazione cinematografica. I saggi che compongono il secondo numero di Cinema e Storia si interrogano sul ruolo svolto dal cinema e dalla televisione, coprendo un arco che va dai primi film e documentari, oggi pressoché sconosciuti, ai successi internazionali come La vita è bella, dalla ricezione dei grandi film americani, come Schindler’s List, ai meno studiati generi “autoctoni” come quello che ha mescolato, fin dagli anni Settanta, erotismo e nazismo. Forme del racconto eterogenee che hanno attraversato la cultura italiana e che, di volta in volta, hanno intrecciato il discorso sulla Shoah ai grandi nodi della rimozione collettiva, dell’antifascismo, dell’identità cattolica, dei persistenti fantasmi dell’eredità mussoliniana.
INTERVISTA AS ANDREA MINUZ E A GUIDO VITIELLO, MARTEDI’ 29 OTTOBRE 2013 (a cura di Luca Balduzzi
Quando, e in che maniera, il cinema del nostro paese comincia ad avvicinarsi al tema dell’Olocausto?
MINUZ: Il percorso di avvicinamento del cinema italiano al tema dell’Olocausto ricalca grosso modo quello degli altri Paesi. Ovvero, una prima fase di rimozione a partire dalla fine della Guerra seguita da una anamnesi collettiva che prende avvio negli anni Sessanta e simbolicamente si fa coincidere con il clamore dato al processo Eichmann. Tuttavia, il contesto italiano presenta anche delle peculiarità significative. Ad esempio, tra le ragioni dell’assenza di riferimento all’Olocausto nel cinema italiano del dopoguerra c’è sia la competizione coi valori della Resistenza celebrati nel frattempo dai film neorealisti, sia l’emergere del cosiddetto mito del bravo italiano, e di un vasto e profondo processo di deresponsabilizzazione della società italiana che a lungo avrebbe pesato sulla nostra cultura, influenzando, di fatto, anche gli stessi film italiani che raccontano vicende legate all’Olocausto. Dunque, il rapido processo di defascistizzazione della società, la celebrazione del mito del bravo italiano, l’innesco di una euforica narrazione antifascista e la conseguente assimilazione delle vittime ebree del genocidio ai martiri della Resistenza, tutti questi fenomeni definiscono il perimetro entro il quale prende forma la rimozione italiana dell’Olocausto. Un quadro peraltro ulteriormente complicato dal cono d’ombra delle vicende legate al mondo cattolico e alla Chiesa italiana. Senza tenere conto di questo contesto, non si può comprendere il rapporto del cinema italiano con l’Olocausto.
Come cambiano la percezione e la rappresentazione della Shoah da parte del cinema italiano nel momento in cui arrivano film, specialmente statunitensi, di grande successo di critica e di pubblico?
VITIELLO: Gli eventi cinematografici e televisivi a cui fare riferimento sono in particolare due, e si tratta in entrambi i casi di appuntamenti mancati: la miniserie Holocaust della Nbc, del 1978, trasmessa da RaiUno l’anno successivo con il titolo Olocausto; e, quindici anni dopo, Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, la cui prima televisiva è del 1997. Nel numero di «Cinema e Storia» che abbiamo curato, il saggio di Emiliano Perra ricostruisce la ricezione italiana di entrambi i film. Holocaust, la cui trasmissione fu in Germania un evento dirompente (forse la prima vera «resa dei conti» collettiva con il passato), in Italia fu un’occasione perduta: ebbe tutto sommato scarso impatto, e servì più che altro a rafforzare lo stereotipo del buon italiano (i cattivi sono sempre e solo i tedeschi), a biasimare la «banalizzazione» e la mercificazione della tv americana e a discutere indirettamente altre questioni, come per esempio la politica di Israele. Schindler’s List, al contrario, segnò un momento di grande partecipazione emotiva, fu salutato da certi commentatori come una riscossa del «popolo della memoria», ma questa catarsi andò a scapito della presa di coscienza delle responsabilità italiane nello sterminio. Però il film di Spielberg, come mostra nella rivista il saggio di Claudio Gaetani, diede il via a una nuova ondata di film, soprattutto televisivi, legati direttamente o indirettamente alla Shoah.
Come nasce e si sviluppa il particolare genere tutto italiano della Nazi-Sexploitation?
VITIELLO: Forse è esagerato dire che è un genere tutto italiano, ma di certo è l’unico genere legato alla Shoah coltivato con determinazione e costanza in Italia, fino a contare decine di film prodotti per lo più nella seconda metà degli anni Settanta. Già solo questo dato, per inciso, dovrebbe far riflettere. Il «porno-nazi», come spesso lo si chiama, nasce simultaneamente dal basso e dall’alto. Dal basso, perché si riallaccia a un filone di romanzi pulp, riviste e fumetti che fin dai primi anni Sessanta hanno combinato nazismo ed erotismo; ma ancor più dall’alto, nel senso che la Nazi-Sexploitation nasce sulla scorta di film considerati «d’autore», come La caduta degli dei (1969) di Visconti e Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, che hanno recepito un’immagine «dionisiaca» del nazismo il cui capostipite è, ancor più in alto, Thomas Mann. Ed è anche il genere italiano che più di ogni altro è entrato a far parte di un immaginario cinematografico «transnazionale» della Shoah: se ne trovano tracce perfino in Schindler’s List, nel legame di passione e violenza tra il comandante del lager e la sua domestica ebrea, come pure nella famigerata «scena delle docce».
E’ facile ricordare film italiani dedicati all’Olocausto come La vita è bella di Roberto Benigni, eppure moltissimi altri, soprattutto fra i primi, sono finiti nel dimenticatoio… come è possibile?
MINUZ: Anzitutto, questo si spiega con la scarsa attenzione che in Italia è stata riservata al cinema dell’Olocausto. La nostra è la prima pubblicazione interamente dedicata alla Shoah nel cinema italiano e come tale non va che considerata un primo passo senza alcuna pretesa sistemica. A tutt’oggi, i più importanti studi dedicati a questo tema provengono dal mondo anglosassone (e non sono stati tradotti). Quello che abbiamo realizzato è un primo tentativo di colmare lo scarto. Perciò abbiamo cercato di recuperare quei film “finiti finiti nel dimenticatoio” ma che pure rivestono grande importanza per ricostruire il rapporto tra la Shoah e la società italiana a partire dal cinema. Un ottimo esempio è un film del 1948, interpretato dall’attore comico Nino Taranto. un film insolito, praticamente mai citato nei lavori sul tema anche perché poco noto, eppure ricco di motivi di interesse trattandosi di una commedia con gag d’avanspettacolo ambientata quasi interamente in un improbabile istituto di eugenetica. Accidenti alla guerra! scherza sul mito della razza ariana contrapponendogli il piccolo e bruno Nino Taranto. Ma proprio la possibilità di poter costruire delle gag dentro un istituto di eugenetica all’indomani della guerra e a dieci anni dal Manifesto della Razza si fonda sullo schema che vede di qua il bravo italiano, estraneo alla logica della rigenerazione e della purezza razziale, e di là i cattivi scienziati nazisti.
Quali film indichereste come esempi maggiormente riusciti del racconto della Shoah da parte del cinema italiano?
MINUZ: Difficile decidere quali siano i film più riusciti, in un cinema in cui la Shoah è sempre stata un tema decisamente marginale. Forse è meglio parlare di singole sequenze particolarmente felici. Come per esempio, in La vita è bella, la lezione improvvisata di «dottrina della razza» o la traduzione surreale delle regole del lager. C’è del buono in molti film italiani, specie nella tradizione un po’ misconosciuta dei documentari, anche se i film di cui si è più parlato fuori dai nostri confini sono tutti fortemente controversi: da Kapò di Gillo Pontecorvo a Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller allo stesso Portiere di notte. E ovviamente le controversie maggiori le ha scatenate proprio La vita è bella. Questo è, in fondo, il paradosso del cinema italiano: marginalissimo rispetto al tema, ma centrale in alcuni snodi del discorso internazionale sulla Shoah.
Il libro porta avanti anche una riflessione sulla mancanza di un Museo dell’Olocausto nel nostro paese…
VITIELLO: La questione è affrontata in dettaglio da Robert Gordon, che alla costruzione culturale della memoria italiana della Shoah ha dedicato un importante libro uscito lo scorso anno. Però, al di là del fatto che ancora non abbiamo un Museo Nazionale della memoria della Shoah, quello che mi pare più grave è che il dibattito sulla costruzione di un museo della Shoah non ha avuto allo stato attuale un’ampia rilevanza come in Germania (che commemora la propria colpa con la celebre costruzione labirintica, realizzata da Peter Eisenmann a Berlino, davanti la Porta di Brandeburgo). Non ha cioè riguardato quelle che mi sembrano le domande decisive che dovremmo porci. Ossia, quale deve essere la funzione di un museo della Shoah in un Paese che ha emanato le leggi razziali? Come equilibrare le retoriche universalistiche con le controverse specificità della storia nazionale? E quale significato assume un museo della Shoah a Roma, nella città simbolo del cattolicesimo?